giovedì 25 aprile 2019

Sydney Sonnino, un leader per la guerra. I Parte

di Giancarlo Ramaccia


Sydney Sonnino all'epoca della Grande Guerra


Sidney Sonnino un leader per la guerra




Sidney Sonnino è stato tra i protagonisti assoluti della “grande guerra” e tra i pochi politici che ricoprirono e mantennero negli anni seguenti il medesimo importante incarico di governo: quello di Segretario di Stato agli Affari Esteri del Regno d’Italia. A partire dalla fase che precedette la decisione di entrare in guerra (il perché, il quando, il come e soprattutto con quale alleanza) fino alla sua conclusione – dopo la vittoriosa battaglia del Solstizio e dopo anni di duri sacrifici, lotte, battaglie e lutti infiniti – con la partecipazione alla Conferenza di pace di Parigi del 1919. Egli indirizzò strategicamente gli eventi del nostro Paese per un ampio arco temporale, che va dalla metà dell’anno 1914 a tutto il 1919. Per questo motivo è importante conoscere meglio la biografia di questo leader politico.
Egli nacque a Pisa l’11 marzo del 1847 dal barone Isacco e da Giorgina Terry. Suo padre Isacco Sonnino era un proprietario terriero livornese ed anche banchiere d’affari, di religione ebraica, era un uomo energico ed attivo e aveva lungamente soggiornato in Egitto, legandosi ad ambienti del governo vice-reale del celebre Mohamed-Alì e sempre in Egitto aveva conosciuto e sposato Giorgina Sofia, nata a Lisbona da genitori inglesi anch’essi trasferitisi in Egitto. Donna di grande temperamento e di cultura ed educazione protestante.
Figlio di un livornese che per molti anni era vissuto all’estero e di una gentildonna portoghese di cultura e mentalità inglese, Sidney Sonnino crebbe in un ambiente cosmopolita dove la dimensione e le problematiche internazionali erano qualcosa di abituale e naturale. Svolse i suoi studi a Pisa, seguendo i corsi universitari di Scienze politiche e di Economia. A vent’anni, ossia nel 1867, entrò a far parte del servizio diplomatico del Regno d’Italia. La sua prima destinazione fu la legazione di Madrid per poi successivamente trasferirsi a Vienna e a Berlino ed infine ritornare di nuovo a Madrid. Deluso e insoddisfatto dell’attività svolta nel servizio diplomatico, preferì abbandonare la carriera diplomatica e tornare a Firenze dove riprese gli studi di Scienze politiche e di Economia. In quegli anni fu assiduo frequentatore del salotto di Emilia Peruzzi, dove potè incontrare importanti intellettuale e scienziati del tempo e venire a conoscenza delle dottrine evoluzionistiche e sociali. I suoi interessi si incentrarono sulle problematiche relative all’economia agraria e sulla condizione sociale dei contadini nel nostro Paese; sul funzionamento delle istituzioni parlamentari e con maggiore interesse sull’introduzione del “suffragio universale diretto”, che lo portava inevitabilmente ad avvicinarsi e poi a svolgere una intensa attività politica. Promosse indagini di ricerca sul campo ed elaborò progetti di riforma, i cui risultati furono resi pubblici in libri che alimentarono il dibattito politico degli anni settanta.
Eletto  Consigliere comunale di San Miniato (Pisa) nel 1870 e poi sindaco a Montespertoli (Firenze) nel 1887, dove in precedenza suo padre Isacco aveva ricoperto la medesima carica, nelle elezioni del 16 e 23 maggio 1880, per la prima volta, venne eletto deputato nel Collegio di San Casciano Val di Pesa. Verrà rieletto, in seguito, per undici legislature e nominato senatore del Regno il 3 ottobre 1920.
In questa sua prima elezione si presentò ai suoi elettori libero da ogni legame di gruppo o fazione, interessato a combattere “l’intrigo e l’immoralità” da qualunque parte si mostrassero, desideroso di estendere il diritto di voto a tutti e pronto a risolvere la “questione sociale” e ad intervenire nella lotta “tra lo Stato e la Curia romana”. Va detto che i suoi primi atti e discorsi tenuti alla Camera dei Deputati riguardarono la tutela dei lavoratori e l’abolizione della tassa sul macinato, per poi affrontare nei mesi ed anni successivi la riforma della legge elettorale politica.
Chiaramente influenzato dalla ideologia liberale, ben presto manifestò il suo dissenso nei confronti dei leader liberali del momento su temi quali: la rappresentanza politica; la questione agraria; lo stato in cui versava il Mezzogiorno d’Italia; la questione sociale. Molto attivo nelle commissioni parlamentari ed in aula, in breve tempo diventa uno dei maggiori esponenti del “Centro”, convinto di dover realizzare un partito nuovo sulle rovine della “Destra e Sinistra storica”.
Dopo l’adesione dell’onorevole Minghetti, nel maggio del 1883, alla politica di Depretis, aderisce al trasformismo. Si schiera con l’opposizione meridionale al governo Depretis nel tentativo di riequilibrare i rapporti economici sfavorevoli al Meridione d’Italia. E’ favorevole al terzo ministero Cairoli, appoggia il quarto ministero Depretis.
Sonnino è da subito favorevole alla Triplice Alleanza. L’alleanza con la Germania e con l’Austria-Ungheria è per lui utile al rafforzamento della posizione strategica dello Stato e serve ad acquisire maggiore rilevanza sul piano internazionale e appoggi utili nei giorni del pericolo. Egli afferma, nel 1881, che le alleanze tra le nazioni non devono fondarsi sulle somiglianze tra gli ordinamenti statali, ma sulla pura convenienza internazionale.
Il 27 ottobre 1881 sua maestà Umberto I si reca a Vienna per una visita ufficiale che formalizza il riavvicinamento tra l’Italia e l’Austria, provocato dalla vicenda tunisina. In quei giorni l’Italia ottiene assicurazioni di un appoggio austriaco nel caso essa voglia intervenire in Africa. Inizia la trattativa che porterà gli ambasciatori Felice Nicolis de Robilat e il principe Heinrich von Reuss rappresentanti nella capitale austriaca dell’Italia e della Germania, con il conte Gusztav Zsigmond Kalnoky von Korospatak, ministro degli Esteri austriaco, a firmare, il 20 maggio del 1882, il trattato della Triplice alleanza.
Sonnino, pur entusiasta della firma, ne critica i modi in cui l’accordo è stato raggiunto e la mancanza di garanzie per l’Oriente e il Mediterraneo. Egli in tutta la sua vita politica fu sempre attento a ciò che avveniva nei Balcani e nel Vicino Oriente. Dal 1878, l’anno in cui le truppe russe arrivarono fino a Costantinopoli e la Turchia fu costretta alla pace di Santo Stefano (3 marzo) e l’Inghilterra, rifiutando i termini di quella pace, si allea alla Turchia, favorendo l’occupazione della Bosnia Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria (occupazione che sarà foriera di dissidi insanabili tra l’Austria e la Russia per l’influenza sui Balcani, acuita dalla risoluzione del Congresso di Berlino voluto, nei mesi di giugno-luglio, da Bismarck, per dirimere la cosiddetta “questione d’oriente”, a svantaggio della Russia che otterrà solo la Bessarabia e con la conferma della indipendenza della Serbia e della Romania, oltre alla costituzione del nuovo Stato della Bulgaria, con l’Austria che ottiene l’amministrazione politico militare della Bosnia Erzegovina), Sonnino manifesterà forte preoccupazione per l’espansione austriaca e il relativo indebolimento della posizione internazionale dell’Italia. In discorsi parlamentari ed interventi politici successivi difende la causa delle nazionalità balcaniche e della necessità di opporsi alla politica espansionistica austro-ungarica e difende i diritti all’indipendenza del Montenegro e dell’Albania. A tutto ciò si aggiunge la preoccupazione per la vicenda tunisina e per l’ incapacità, manifestata dal governo in carica, di svolgere una proficua politica di difesa degli interessi nazionali, stringendo alleanze con le potenze centrali e valorizzando i rapporti con la Gran Bretagna.
Dal 1883 aumenterà la sua ostilità verso la politica estera del governo che si estenderà anche a quella finanziaria; passando decisamente, nel febbraio del 1886, alla opposizione durante il dibattito sul disegno di legge riguardante l’assestamento del bilancio statale 1885/1886.
Insieme ad Antonio Starrabba di Rudinì e con altri dissidenti di destra, dichiarò guerra ai vecchi leader liberali, chiedendo una politica estera vigorosa, un rafforzamento dell’Esercito e della Marina, una finanza forte e una politica interna liberale, che garantisse e tutelasse la povera gente. In breve, una politica imperiale per l’Italia. In questa fase della sua vita politica si avvicina a Crispi, di cui apprezza la politica di estendere la presenza territoriale italiana verso gli altipiani tigrini; convinto che è essenziale, per l’avvenire dell’Italia, controllare “sia colonie commerciali che quelle agricole”. Da questo avvicinamento scaturì il suo primo incarico governativo, come sottosegretario al Tesoro, che dal dicembre del 1888 era guidato da Costantino Perazzi. Incarico di breve durata, gennaio-marzo1889, perché per evitare un voto di sfiducia della Camera sulla gestione delle finanze (il ministro del Tesoro comunica alle Camere che il disavanzo nel bilancio ammonta a 192 milioni e non a 62, come affermato dal suo predecessore Agostino Magliari) Crispi e il suo governo si dimettono il 28 febbraio 1889. Il 9 marzo, ricostituito un nuovo ministero, Crispi nomina al Tesoro Giovanni Giolitti in sostituzione del Perazzi e Federico Seismit Doda al ministero delle Finanze in sostituzione di Bernardino Grimaldi. Sidney Sonnino, apprese le nomine ministeriali, si rifiutò di rimanere come sottosegretario con Giovanni Giolitti. Non accetterà, nel gennaio 1891, neanche l’offerta di essere il candidato governativo alla presidenza della giunta del Bilancio della Camera, avanzata da Antonio di Rudinì che era succeduto alla guida del governo nel gennaio 1891, perché non condivideva la politica finanziaria e quella africana. Accettò di far parte del terzo ministero Crispi del 1893 in qualità di ministro delle Finanze e ad interim del Tesoro; nel rimpasto di governo dell’anno successivo cedette il ministero delle Finanze a Paolo Boselli mantenendo per sé quello del Tesoro fino alla caduta del governo, che avvenne nel marzo del 1896.
E’ dal 1893 che possiamo datare l’inizio di un rapporto di opposizione e di antagonismo con Giolitti, a seguito dello scandalo della Banca Romana e delle vicende dei Fasci siciliani. E’ in questo periodo che il Sonnino, con il suo sottosegretario Antonio Salandra, svolge una importante attività di risanamento della finanza pubblica e del sistema bancario, ottenendo ampi riconoscimenti in Italia e all’estero che lo inseriranno, a pieno titolo, nel primo rango degli uomini politici italiani. Passa di colpo  da capo politico di un piccolo gruppo di parlamentari al ruolo riconosciuto di leader di un ampio schieramento politico.
Dopo la vittoria abissina di Adua del marzo 1896, è all’opposizione del secondo ministero del marchese Antonio Starrabba di Rudinì, critico sulla sua scelta di istituire un alto commissariato in Sicilia e non condividendo la politica estera di Emilio Visconti Venosta, che subentrava ad Onorato Caetani (il quale aveva tacitamente rinnovato nel maggio 1896, in base all’articolo 14 del trattato che prevedeva “il rinnovo automatico per sei anni qualora nessun contraente lo avesse denunciato l’anno prima della scadenza”, la Triplice Alleanza. Il governo italiano aveva proposto di inserire nel trattato della Triplice la dichiarazione ministeriale del 1885, che impegnava l’Italia a non rivolgere l’alleanza contro l’Inghilterra ottenendo un secco rifiuto da parte del governo di Berlino. Il Caetani ottenne solamente l’inserimento della dichiarazione unilaterale dell’Italia, che esclude un suo intervento contro la Francia e l’Inghilterra unite) ed aveva avallato con la sua firma a Parigi la convenzione del 30 settembre 1896 tra Italia e Francia in cui si pone termine al lungo periodo di tensione tra i due governi sulla questione tunisina. Convenzione che concedeva: il riconoscimento, agli Italiani  presenti in Tunisia, dei diritti già stabiliti nel trattato del 1868 (ossia conservazione della cittadinanza italiana e diritto di associazione). Per Sonnino tale convenzione era una concessione alla Francia senza contropartita e un nuovo duro colpo alla credibilità internazionale del nostro Paese. Negli anni successivi, e in particolar modo tra il 1899 e il 1901, cambia il suo giudizio sugli indirizzi di politica estera, resta un convinto triplicista, lo sarà sempre fino al momento della nostra entrata in guerra al fianco della Triplice Intesa, ma ricercherà un rapporto di tipo privilegiato con la Gran Bretagna. Egli scriveva:”Dentro o fuori la Triplice, l’Italia deve (…) continuare a mantenersi forte, in guisa che la sua amicizia possa essere preziosa per ognuno e la sua inimicizia non indifferente a nessuno”, affermazione apparsa su Il Giornale d’Italia del 10 gennaio 1902. Sonnino non è più il principale francofobo d’Italia.
Da questo mutamento di prospettiva ne deriva la sua richiesta al governo austro-ungarico di specificare i compensi previsti all’articolo 7 del trattato della Triplice Alleanza nel caso di una espansione territoriale austriaca nella regione dei Balcani o sulle coste e isole ottomane, nel mare Adriatico o in quello Egeo.
Durante i duri anni della crisi di fine secolo, Sonnino operò in maniera decisiva alla stesura del programma politico e alla formazione del secondo ministero Pelloux, oltre alle modifiche del regolamento della Camera che dovevano garantire i diritti della maggioranza parlamentare e snellire le procedure parlamentari. A seguito delle elezioni politiche del 3 e 10 giugno 1900 e dopo l’assassinio del re Umberto I, del 29 giugno, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, e la salita al trono di Vittorio Emanuele III, che guarda con simpatia ad uomini come Zanardelli e Giolitti e accelera l’evoluzione politica del governo in senso progressista, Sidney Sonnino pubblica un saggio sulla Nuova Antologia di Firenze dal titolo: Quid Agendum. Appunti di politica ed economia dove delinea un programma di riforme economiche, giuridiche, sociali (la revisione dei contratti agrari, la razionalizzazione della giustizia, miglioramenti delle condizioni degli insegnanti) che rinsaldino la maggioranza liberale in una prospettiva di “governo forte” come prospettato nel suo articolo del 1897 intitolato Torniamo allo Statuto. Tale invito viene accettato dall’onorevole Giolitti, che su La Stampa di Torino pubblica un articolo di risposta dal titolo Per un programma e per l’unione dei partiti liberali dove accetta la proposta di un accordo tra le forze liberali, ma giudica generiche le idee di Sonnino sottolineando l’urgenza di una riforma del sistema tributario vigente, che è per lui la vera causa del malcontento popolare. Con ciò Giolitti mira ad impedire il formarsi, attorno alla persona del Sonnino, di una maggioranza conservatrice e di destra.  Sonnino, accettando la riforma tributaria ed entrando nel dettagli tecnici, in un successivo articolo intitolato Questioni urgenti propone la formazione di “un grande partito liberale” che sia il centro organizzativo delle politiche governative e istituzionali. Nel medesimo anno 1901 fondò a Roma Il Giornale d’Italia organo di quel partito delle istituzioni che si oppone e contrasta i partiti sovversivi e che diffonde la cultura dell’industria manifatturiera e la tutela del mondo agricolo. Egli ne affidò la direzione al giornalista Alberto Bergamini che proveniva dal Corriere della Sera di Milano, non solo perché condivideva le valutazioni politiche, ma soprattutto per una reale sintonia caratteriale. Ambedue erano schivi, austeri, silenziosi, decisionisti, testardi e soprattutto incapaci di modificare le loro idee al seguito dei mutati scenari sociali.
Nel primo quindicennio del Novecento Sonnino, in qualità di leader dell’opposizione costituzionale, rappresentò l’alternativa politica a Giolitti. Un’alternativa non solo di programma economico e sociale, ma anche di politica estera. Pur approvando il rinnovo della Triplice Alleanza, del giugno del 1902, che riproduceva in grandi linee il testo del 1891, e l’operato del nostro ministro degli Esteri Giulio Prinetti sull’opportunità di prolungare la validità del trattato per i successivi dodici anni con eventuale denuncia dopo i primi cinque; di stipulare trattati commerciali tra l’Italia e l’Austria-Ungheria; di auspicare l’ingresso dell’Inghilterra nella Triplice e l’inserimento di garanzie di tutela degli interessi italiani a Tripoli, e pur non ottenendo da Berlino e da Vienna il riconoscimento del carattere difensivo dell’alleanza, Sonnino criticò duramente la politica del ministro degli Esteri Tommaso Tittoni (terzo ministero Giolitti) in occasione della crisi bosniaca del 1908. Infatti, nel mese di gennaio 1908 il governo autro-ungarico annunciava l’intenzione di costruire una linea ferroviaria dal confine della Bosnia al confine macedone, attraversando il Sangiaccato di Novi Bazar. La notizia produceva preoccupazione e irritazione nei nostri ambienti industriali, che avevano previsto una espansione economica in quella stessa direzione e stavano valutando la costituzione e la costruzione di una ferrovia Danubio-Adriatica per collegare la Serbia al porto albanese di San Giovanni di Medua, territorio sotto il dominio dei Turchi. Appena nove mesi dopo, il 6 ottobre del 1908, il governo austriaco si annette la Bosnia-Erzegovina, ufficialmente sottoposta alla Turchia, ma amministrata e militarmente occupata dall’Austria, in base alle decisioni prese al Congresso di Berlino del 1878. In una sua comunicazione in merito, il ministro Tommaso Tittoni, che era stato informato il 25 settembre dal suo collega austriaco Alois Lexa von Aehrenthal della volontà austriaca di porre termine all’occupazione militare del Sangiaccato di Novi Bazar e quindi di avere mano libera sulla zona, afferma che tale annessione da parte dell’Austria-Ungheria non viene a turbare gli equilibri politici nei Balcani e non mette in pericolo la pace. A fine novembre gravi incidenti si verificheranno a Vienna tra studenti austriaci e italiani, che chiedono la fondazione di una Università italiana; essi creeranno ulteriori nuove tensioni tra i due governi. La Camera, in ogni caso, il 4 dicembre approverà con 297 voti favorevoli e 140 contrari la politica estera del governo e Giolitti dichiarerà che “la pace deve essere l’obiettivo della nostra politica quando non sono in gioco né interessi vitali né l’onore del paese”. Sonnino non condividerà tale posizione, individuando nella scarsa armonizzazione tra direttive di politica nazionale e quelle di politica estera e militare, lo scacco diplomatico italiano. Chiederà con convinzione di procedere a migliorare i rapporti con la Francia pur riaffermando la sua lealtà alla Triplice Alleanza.
Le differenze tra la politica espressa da Sonnino e quella di Giolitti sono molteplici; esse vertono su una diversa idea di partito liberale, sulla politica interna e le sue priorità, sulla tattica delle alleanze, sui rapporti con i cattolici. Infatti, mentre Giolitti favorì le intese clerico-moderate che portarono alle elezioni del 6 e 13 novembre del 1904 e a quelle del 7 e 14 marzo 1909 e alla sospensione del non expedit  per giungere al Patto Gentiloni, che nelle elezioni del 26 ottobre 1913 riammetteva i cattolici nell’agone politico, Sonnino auspicava una più netta separazione tra Stato e Chiesa, “tra scuola laica e insegnamento religioso”. Egli, pur essendo il padre Isacco di religione ebraica, fu battezzato e sepolto secondo il rito anglicano professato dalla madre, ma fu sempre lontano dai dogmi e dalle liturgie delle diverse fedi rivelate. La sua religione fu sempre quella della sola coscienza individuale. Per questo la sua ostilità nel confronti del papato fu sempre netta e senza possibilità alcuna di conciliazione.
L’8 febbraio del 1906, a seguito della crisi del ministero Fortis, venne nominato per la prima volta presidente del Consiglio dei Ministri. Invitò i radicali a far parte della compagine governativa e caratterizzò il suo programma con significativi provvedimenti legislativi riguardanti il Meridione d’Italia. La maggioranza che sostenne il governo rispecchiava l’intesa tra Centro e Radicali, tra il gruppo di Rudinì e quello di Luzzatti, esponente della vecchia Destra, più l’appoggio esterno dei socialisti. Il governo è composto in prevalenza da uomini appartenenti alla Destra e al Centro: presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim Sidney Sonnino; Francesco Guicciardini agli Esteri; Antonio Salandra alle Finanze (numero due della corrente Il Centro guidata dal Sonnino e già suo sottosegretario alle Finanze nel governo Crispi); Luigi Luzzatti al Tesoro; Paolo Boselli all’istruzione; Pietro Carmine ai Lavori pubblici; Alfredo Baccelli alle Poste e Telegrafi; il generale Luigi Majnoni d’Intignano alla Guerra; l’ammiraglio Carlo Mirabello alla Marina; Ettore Sacchi alla giustizia ed Edoardo Pantano all’Agricoltura.
 Dopo cento giorni, il 18 maggio 1906, il ministero si dimette. Sonnino non riesce a vincere l’ostilità della sua maggioranza parlamentare sulla questione del riscatto delle ferrovie meridionali.
Il re incarica Giolitti di costituire il suo terzo ministero. Breve fu la durata anche del secondo ministero Sonnino.
Il 2 dicembre 1909 Giolitti presenta le dimissioni al re, motivandole con l’ostilità della Camera al suo progetto di riforma tributaria da lui presentato nel novembre e che prevedeva un’imposta progressiva globale sui redditi e la diminuzione dell’imposta sullo zucchero. La scelta di far cadere il governo su una riforma democratica era stata maturata dal Giolitti stesso, nella convinzione di un ritorno al potere, in seguito al fallimento delle sue proposte sulla questione delle convenzioni marittime. Invece il re, a sorpresa, incarica Sidney Sonnino di costituire il suo secondo ministero. Egli tiene per sé anche il ministero dell’Interno; Francesco Guicciardini è nominato agli Esteri; Antonio Salandra al Tesoro; Vittorio Scialoia alla Giustizia; Luigi Luzzatti all’Agricoltura, Industria e Commercio; Paolo Spingardi al ministero della Guerra; l’ammiraglio Giovanni Bettolo alla Marina; Giulio Rubini ai Lavori pubblici; Ugo Santonofrio del Castello alle Poste e Telegrafi. Il ministero ha una prevalenza di esponenti del Centro, della Destra Luzzattiana e della Sinistra Democratica, ma con quest’ultimo raggruppamento l’intesa politica si rivelò da subito impossibile e, quindi, il ministero dovrà reggersi sul voto di un gruppo di deputati giolittiani.
A gennaio del 1909 tra Italia e Austria torna a salire la tensione diplomatica. Un articolo pubblicato dal Danzer’s Armèe Zeitung, giornale viennese, vicino ai vertici militari imperiali, sostiene che l’Austria dovrebbe trarre occasione dalla difficile situazione italiana, causata dal terremoto che ha appena devastato Reggio Calabria e Messina, per scatenare contro l’Italia una guerra preventiva. Il ministro degli Esteri austriaco Alois Lexa von Aehrenthal si dissocia dall’articolo e dà al nostro ministro degli Esteri Tittoni assicurazioni riguardo alla prossima istituzione dell’Università italiana a Trieste (il progetto di legge del governo austriaco non verrà mai discusso). A seguito di ciò, il ministro Tittoni è pronto a rassegnare le dimissioni, ma Giolitti lo convince a ritirarle e nella primavera a riprendere le trattative per giungere ad una definizione sulla questione balcanica. Il 20 ottobre il ministro degli Esteri Alois von Aehrenthal comunica al suo collega Tittoni la disponibilità del governo austriaco ad un accordo che impegni le due nazioni a consultarsi reciprocamente sulle questioni balcaniche e garantisce compensi all’Italia, in base all’articolo 7 del trattato della Triplice (rinnovato automaticamente nel 1907), nel caso di una nuova occupazione austriaca del Sangiaccato di Novi Bazar. Alcuni giorni dopo, il 24 ottobre, nel castello reale di Racconigi presso Torino, in occasione della visita dello zar Nicola II di Russia, si sottoscrive un accordo, che rimarrà in un primo tempo segreto, e che prevede il comune impegno dell’Italia e della Russia a perseguire il mantenimento dello “status quo” nella penisola balcanica; di favorire le ambizioni di autonomia nazionale dei popoli della regione; di partecipare congiuntamente ad eventuali trattative con altri Stati sulla questione balcanica e di procedere in modo concordato sul piano diplomatico e infine concordano di considerare con benevolenza gli interessi reciproci: quelli italiani in Tripolitania e Cirenaica e quelli russi sugli stretti. Tale accordo mira a bloccare l’espansione austriaca nei Balcani. A seguito di questi eventi Sonnino si convince che la Triplice Alleanza può essere lo strumento per la soluzione pacifica della “questione nazionale italiana” e invita il suo ministro degli Esteri, Francesco Guicciardini a continuare la trattativa con il ministro degli Esteri austriaco, condotta in precedenza dal Tittoni sulla base dell’accordo segreto come quello stipulato con la Russia il 24 ottobre. Con uno scambio di note diplomatiche, l’Austria-Ungheria s’impegna a non rioccupare il Sangiaccato senza un accordo preventivo con l’Italia basato sul principio del consenso e reciprocamente si impegnano a trattare in modo concordato le questioni balcaniche e di comunicarsi a vicenda eventuali iniziative prese da altre potenze per modificare lo status quo nei Balcani. Sonnino, anche dopo lo scambio di tali note diplomatiche con l’Austria, invita il suo ministro degli Esteri a mantenere l’iniziativa diplomatica nei confronti dell’Austria al fine di precisare quali compensi territoriali (il Trentino, l’Istria occidentale o altri territori) avrebbe avuto l’Italia nel caso di una espansione dell’impero asburgico.
L’11 febbraio 1910 il Presidente del Consiglio Sidney Sonnino espone alla Camera il suo programma di governo, dopo le ferie parlamentari di fine anno, delineando un vasto programma di riforme riguardante, tra l’altro, la questione delle sovvenzioni marittime, l’istituzione del ministero delle Ferrovie, il riordino della legislazione doganale, l’assistenza ospedaliera e l’assunzione, da parte dello Stato, delle spese di istruzione elementare. Con 193 voti favorevoli e 83 contrari, presenti solo 287 deputati su 508, ottiene la fiducia della Camera. Il 21 marzo 1910 Sonnino si dimette. La sua maggioranza parlamentare rigetta il progetto di legge relativo alle convenzioni marittime. Succede al suo ministero quello dell’onorevole Luzzatti, con Antonino di San Giuliano, che sostituisce Francesco Guicciardini al ministero degli Esteri e che ne continuerà la trattativa con l’Austria per la definizione degli eventuali compensi territoriali.
Ritornato al potere Giolitti, dopo le dimissioni del ministero Luzzatti, Sonnino manifestò tutta la sua contrarietà e ostilità al governo in un importante discorso tenuto il 7 aprile del 1911; accusò il Presidente del Consiglio Giolitti di doppiezza politica, criticò duramente il suo tentativo di  mantenere diviso il partito liberale in una destra e in una sinistra e accusò Giolitti di favorire la politica “dei sovversivi”. Unico punto di convergenza il sostegno alla Guerra di Libia che garantiva, secondo lui, la salvaguardia dei nostri commerci, una presenza italiana nel Mediterraneo e una espansione coloniale che alleviava la piaga della nostra emigrazione. Occupare Tripoli era per lui un problema prioritario e quindi “nulla importava” se Giolitti o altri prendevano tutta la gloria. La Guerra alla Turchia, che portò a fondare la colonia della Libia, indebolì notevolmente l’Impero Ottomano, contro il quale nell’ottobre del 1912 entrarono in guerra: la Bulgaria, la Serbia, il Montenegro e la Grecia. Sonnino seguì con particolare simpatia la Guerra Balcanica perché considerava “un abominio e una vergogna” il perdurare in Europa del dominio turco. A dicembre del 1912  la Turchia, ripetutamente battuta sul campo dalla “quadruplice alleanza balcanica” firma un armistizio con la Serbia e la Bulgaria, continuando le ostilità contro la Grecia e il Montenegro. Il 30 maggio 1913 si conclude la prima Guerra Balcanica, con la firma del Trattato di Londra, che stabilisce la spartizione della Macedonia tra la Serbia, la Bulgaria e la Grecia. La Serbia si vede invece negare lo sbocco sul mare Adriatico da un’intesa tra Austria e Italia che porterà alla creazione dello Stato Indipendente dell’Albania. Non è questa l’unica intesa che sottoscriverà l’Italia con l’Austria nel medesimo anno. Verrà firmata anche una convenzione navale che andava a rinsaldare il rinnovo anticipato del Trattato della Triplice del dicembre 1912. Tutte queste vicende furono dal Sonnino seguite con attenzione e condivise, anche perché dopo le elezioni politiche del 1913 egli stava procedendo allo scioglimento del suo gruppo politico, i cui aderenti confluiranno nel nascente “gruppo parlamentare liberale” che aveva in Antonio Salandra  il suo punto di riferimento, e collaboratore di lungo corso del Sonnino e numero due del gruppo del Centro.
Il 7 marzo 1914, al termine del dibattito sulle spese relative alla guerra di Libia, in parte già sostenute e in parte da sostenere, che si svolse alla Camera dei Deputati, a partire dal 10 febbraio, durante il quale Sonnino rende noto l’ammontare del disavanzo del bilancio e che la Camera approverà a grande maggioranza,  Giolitti, che in precedenza aveva deciso di dimettersi, non pone la questione di fiducia, accelerando in questo modo le dimissioni dei ministri radicali. Il 10 marzo a seguito di ciò si dimette l’intero ministero. Il 12 marzo il Re propone a Sonnino di costituire un nuovo Governo ma egli giudica non fattibile un suo ministero vista l’opposizione della maggioranza giolittiana e quindi il giorno dopo declinerà l’incarico. Il Re, su consiglio di Giolitti, affiderà l’incarico ad Antonio Salandra che il 21 marzo vara il suo primo ministero così composto: Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Antonio Salandra; Paternò-Castello di San Giuliano, Esteri; Ferdinando Martini alle Colonie; Giulio Rubini al Tesoro; Luigi Rava alle Finanze; Luigi Dari alla Giustizia; Edoardo Danco all’istruzione; Augusto Ciuffelli ai Lavori Pubblici; Vincenzo Riccio alle Poste e Telegrafi; Giannetto Cavasola all’Agricoltura; Ammiraglio Enrico Millo alla Marina; mentre al Dicastero della guerra inizialmente sarebbe dovuto andare il Generale Carlo Porro che pone come condizione a Salandra la richiesta di procedere con uno stanziamento di 600 milioni, in quattro anni, per le spese militari al fine di rafforzare l’esercito. Salandra dopo questa richiesta preferì nominare il Generale Domenico Grandi, più disponibile e accorto politicamente.
Il 5 aprile 1914, tra gli applausi convinti di Sonnino, la Camera vota la fiducia con 303 voti favorevoli (tra cui l’intera compagine giolittiana), 122 contrari e 9 astenuti.
Il 28 giugno 1914, a Sarajevo nella Bosnia, viene assassinato l’Arciduca Francesco Ferdinando erede al trono austriaco e la sua consorte l’Arciduchessa Sofia, per opera di Gavrilo Princip, giunto in Serbia con la complicità delle autorità di Belgrado, in un clima di forti tensioni politiche tra l’Austria e la Russia protettrice degli Stati Slavi. Da subito Sonnino comprese che l’evento poneva problemi del tutto nuovi alla classe dirigente italiana e che si aprivano opportunità mai scandagliate prima all’Italia. Il Governo Salandra, tramite il suo Ministro degli Esteri San Giuliano, invita i nostri rappresentanti in Germania, Russia e Romania a manifestare la preoccupazione del Governo Italiano per le manifeste intenzioni belliche Austro-Ungariche nei confronti della Serbia e chiede al Governo Russo di fare opera di mediazione e di moderazione tra le parti, ma l’Austria-Ungheria il 23 luglio presenta un ultimatum alla Serbia, dopo aver ottenuto, il 6 luglio, il pieno sostegno alle sue tesi da parte della Germania.
Il testo dell’ultimatum sarà comunicato al Governo Italiano, come a tutti i governi europei, il 24 luglio.
Tale decisione, che contrasta con la lettera del Trattato e con le note diplomatiche vicendevolmente scambiate a suo tempo tra i nostri due paesi, nasce dal timore che l’Italia possa avanzare richieste di compensi territoriali a seguito di un’espansione austriaca nei Balcani, come previsto dal Trattato della Triplice Alleanza. Questo comportamento austriaco getta nel panico la nostra classe dirigente tutta composta da “convinti triplicisti”. Al fine di evitare coinvolgimenti sgradevoli ed automatici il medesimo giorno il Ministro degli Esteri San Giuliano invia una lettera agli ambasciatori italiani a Berlino e a Vienna: Riccardo Bollati e Giuseppe Avarna di Gualtieri, nella quale richiamandosi al testo del Trattato di Alleanza, afferma che l’Italia non ha alcun obbligo di aiutare l’Austria, qualora questa per effetto dell’ultimatum alla Serbia si trovi in Guerra con la Russia, dal momento che l’Austria non avrebbe dovuto agire senza un preventivo accordo con gli alleati. Egli scriverà, il 26 luglio, una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio Salandra esprimendo la sua convinzione, ricavata dalle trattative dei giorni precedenti con il Governo austriaco, che l’Austria sia disposta a cedere all’Italia il Trentino.
Il 28 luglio 1914 l’Austria dichiara guerra alla Serbia. Il Governo Italiano immediatamente convocato (il 31 luglio), decide che “per il momento non è possibile entrare in guerra” ma non rilascia alcuna comunicazione pubblica. Nel medesimo momento il Ministro degli Esteri inglesi e quello russo avanzano agli ambasciatori Guglielmo Imperiali di Francavilla (Londra) e Andrea Carlotti di Riparbella (San Pietroburgo) la richiesta di una entrata in guerra dell’Italia a loro fianco.
Il 2 agosto il Governo Salandra decide la neutralità dell’Italia. Sonnino, da convinto triplicista, e motivato dalla convinzione di una rapida vittoria austro-tedesca manifesta la sua contrarietà e sostiene pubblicamente che l’Italia avrebbe dovuto rimanere fedele alla Triplice Alleanza.
Solo due mesi dopo Sonnino rivede la sua tesi interventista considerando l’impreparazione militare del Paese, la vittoria francese sulla Marna che blocca l’avanzata tedesca e soprattutto a seguito delle prime riservate informazioni riguardanti il negoziato che il nostro Ministro degli Esteri San Giuliano ha promosso (con una informativa “segretissima” a Salandra in data 9 agosto) con i paesi dell’Intesa.
Con la morte del Ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano, il 16 ottobre, e a seguito della breve crisi del primo ministero Salandra, il 5 novembre 1914 Sonnino accetta la proposta avanzata da Salandra e dal Re  di guidare, nel secondo Ministero Salandra, il Ministero degli Esteri. Tale carica sarà mantenuta in tutti e tre i governi di guerra, Salandra, Boselli, Orlando. In questo modo si ricostituisce nel governo la coppia che aveva guidato il “centro” politico ed è anche la coppia che di fatto prenderà tutte le decisioni politiche che porteranno l’Italia ad entrare in guerra al fianco dell’Intesa. Va segnalato che lo “Statuto Albertino” all’art.5 stabilisce che “al Re solo appartiene il potere esecutivo (…) comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza”, ma sua maestà Vittorio Emanuele III e la corona, in tutta la vicenda della grande guerra, si ritaglieranno un ruolo appartato, di tipo notarile, lasciando decidere in merito gli uomini forti del governo.
Sonnino nella nuova veste di Ministro, tra il novembre del 1914 e il febbraio del 1915, riaprì i negoziati con gli alleati della Triplice, cercando di trovare un accordo sulla base dell’art.7 del Trattato che prevedeva la cessione dei territori dell’Impero Austro-Ungarico come compenso per le conquiste asburgiche nei Balcani e per “la posizione di neutralità” mantenuta dall’Italia nei confronti delle contrapposte alleanze. Il prolungarsi della trattativa e il non pieno soddisfacimento alle nostre richieste da parte del governo austro-ungarico portarono all’insuccesso dei negoziati, e quindi nel marzo del 1915 iniziò la trattativa con la Triplice Intesa che si concluse con la firma del Patto di Londra del 26 aprile 1915 e di seguito con l’intervento italiano in guerra. Ciò avvenne nonostante l’intero Paese fosse schierato a favore della neutralità (non solo le forze politiche: i socialisti, la grande maggioranza dei cattolici, il partito di Giolitti; ma interi settori della società civile quali: il mondo contadino, il movimento operaio, gli agrari, tutti i parlamentari veneti, l’aristocrazia fiorentina, l’entourage del re decisamente germanofilo, ambasciatori fortissimamente triplicisti, una parte consistente della classe dirigente del Paese, per non parlare della Chiesa cattolica e dei vertici militari poco propensi a muovere guerra al trentennale alleato), neutralità che aveva in Giolitti il più solido sostenitore.
Giolitti era convinto che sarebbe stato possibile ottenere “parecchio” dal governo di Vienna per “la via diplomatica” visto che il Paese e l’esercito non erano in grado di sostenere una guerra contro gli ex alleati, che si prevedeva lunga, difficile, onerosa e con conseguenze imprevedibili.

mercoledì 24 aprile 2019

Sydney Sonnino, un leader per la guerra II Parte


di Giancarlo Ramaccia
Sydney Sonnino in una immagine dei primi del novecento


II Parte



Il Patto di Londra, firmato con le potenze dell’Intesa, e che rimarrà segreto fino al 1917, fissa compensi territoriali per l’intervento dell’Italia al fianco di Inghilterra, Francia, Russia e la impegna ad entrare in guerra al loro fianco entro un mese dalla data della firma. L’Intesa si impegna a far ottenere all’Italia: il Trentino, il Tirolo cisalpino fino al Brennero (abitato da popolazione tedesca), Trieste, Gorizia, Istria, gran parte della Dalmazia, il protettorato sull’Albania e il possesso della città di Valona, le isole del Dodecaneso, il bacino carbonifero di Adalia in Asia Minore e alcuni possedimenti coloniali tedeschi in Africa (non ben specificati). Come si vede, dall’elenco delle concessioni manca, da parte dell’Italia, una visione strategica d’insieme, sembra un elenco di acquisti di un bottegaio; ci si dimentica della città di Fiume e delle isole del Quarnaro, si insiste sulla Dalmazia senza precisare i confini territoriali, sul protettorato dell’Albania quando all’Italia basta il possesso della città di Valona per controllare la regione, si richiedono colonie tedesche in Africa e si trascurano più concreti interessi nel vicino oriente. E’ evidente che in assenza di un luogo deputato ove discutere le questioni strategiche e di sicurezza per il Paese, si procede a consultazioni di tipo privatistico, che possono inficiare gravemente gli interessi di tutta la nazione. Si trascurano gli aspetti militari della nostra entrata in guerra; essi saranno definiti successivamente da apposite convenzioni tra i diversi Stati Maggiori.
Il 3 maggio 1915, con una nota al governo di Vienna, Sonnino denuncia la Triplice Alleanza.
Il 6 maggio, ricevendo l’ambasciatore a Roma Karl von Macchio, Sonnino giudica insufficienti le nuove offerte austro-ungariche, che non sono molto più consistenti di quelle avanzate precedentemente dall’Austria e ribadisce la denuncia del trattato della Triplice Alleanza, riservandosi di affidare ad un eventuale parere favorevole del governo italiano la riapertura delle trattative. Il giorno successivo Sidney Sonnino informa il Consiglio dei Ministri che l’Italia si è impegnata a entrare in guerra a fianco dell’Intesa entro il 25 o 26 maggio, dando una informativa sommaria e superficiale su quanto negoziato con i Paesi dell’Intesa, e che l’Austria, venuta a conoscenza di tali accordi, ha tentato di riaprire le trattative con l’Italia, e questo, secondo lui, per comprometterla di fronte all’opinione pubblica europea. Dopo un lungo e acceso dibattito nel Consiglio dei Ministri, si approva la scelta dell’intervento (da notare che non si approva l’operato del ministro) e ci si impegna a dimettersi nel caso di un voto contrario alla Camera, che in base all’articolo 5 dello Statuto Albertino deve approvare i trattati che comportano oneri finanziari per lo Stato. A questo punto interviene il re Vittorio Emanuele III che, fin dal 29 aprile, su suggerimento di Sonnino e Salandra si era impegnato personalmente con l’invio di una serie di telegrammi al re d’Inghilterra, allo zar di Russia e al presidente della repubblica francese ad entrare in guerra al loro fianco. Al re non resta che dichiarare pubblicamente di essere pronto ad abdicare in caso la Camera bocci l’intervento a fianco dell’Intesa, aprendo così una gravissima crisi istituzionale.
Giolitti rientra a Roma e propone a Salandra di liberare l’Italia dagli impegni presi con l’Intesa e di votare la ripresa delle trattative con l’Austria. A seguito di ciò, il 12 maggio, 320 deputati e un centinaio di senatori, ossia la maggioranza parlamentare, che ha ricevuto solo informazioni vaghe e reticenti sui termini del “Patto di Londra”, lasciano a casa di Giolitti il proprio biglietto da visita per sottolineare pubblicamente la loro adesione alla linea neutralista.
Salandra si dimette e il 16 maggio, a seguito di violente manifestazioni interventiste di una minoranza organizzata, il re respinge le dimissioni del governo Salandra, dopo che Giolitti aveva affermato pubblicamente di non volere la caduta del ministero e aver rifiutato la proposta avanzata dal re di guidare un nuovo ministero. Il 21 maggio il Parlamento, pur contrario, concede i poteri straordinari al governo in caso di guerra. Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria.
Sonnino, nonostante il successo della scelta dell’intervento a favore dell’Intesa, viene accusato dai nuovi alleati di aver limitato le ostilità soltanto contro l’Austria e di non aver permesso al Consiglio dei ministri di dichiarare immediatamente guerra alla Germania (non dimentichiamo che Sonnino era stato un convinto triplicista).
Dopo la crisi del governo Salandra (12 giugno 1916) e a seguito della “Strafexpedition” del 14 maggio 1916 (offensiva austriaca in Trentino), gli alleati considereranno loro interesse fondamentale la presenza e la permanenza di Sidney Sonnino alla guida del Ministero degli Esteri; pertanto il nuovo governo guidato dal settantottenne Paolo Boselli, liberale di destra, gli confermerà l’incarico.
Solo il 27 agosto 1916 fu fatta pervenire a Berlino la dichiarazione di guerra del governo italiano e solo perché il 16 agosto le truppe italiane entrarono a Gorizia e si ricreò nel Paese un clima di fiducia per la vittoria. Nei duri anni di guerra Sonnino si occupò esclusivamente delle questioni balcaniche e del conseguimento degli obiettivi fissati nel Patto di Londra, senza rendersi minimamente conto del mutare dello scenario politico internazionale e delle condizioni sociali italiane. Questo suo limite lo portò a durissimi scontri contro la nota del primo agosto 1917 di sua santità Benedetto XV che invitava i governi a raggiungere “una pace giusta e duratura”e a non comprendere il ruolo e la partecipazione degli Stati Uniti nella grande guerra, la rivoluzione d’ottobre in Russia, il mutamento profondo che avvenne in Italia con la sconfitta di Caporetto.
Con l’affidamento a Vittorio Emanuele Orlando della guida del nuovo governo (25 ottobre 1917), Sonnino fu riconfermato nell’incarico, ma ormai era un uomo incapace di produrre una fattiva politica estera. Spaventato dagli eventi che avevano modificato il quadro internazionale e temendo che essi potessero cambiare il complesso degli accordi sottoscritti, divenne l’intransigente rappresentante dell’applicazione “automatica” del Patto di Londra. Tale difesa si scontrava con la politica estera propugnata dal Presidente Thomas Woodrow Wilson che intendeva far valere nuovi principi e non riconosceva alcun valore vincolante al Patto di Londra. Il Presedente Wilson e la sua “new diplomacy” prevedeva la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria, nostro nemico ereditario, a condizione che venisse concessa un’ampia autonomia ai popoli che ne facevano parte e riconosceva all’Italia il diritto a ridefinire i confini “lungo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. Sonnino contestava questa impostazione perché contraddiceva i fini di guerra dell’Italia. Egli era ossessionato dalla questione adriatica che per lui significava la legittima sicurezza di esistere per l’Italia.
Sonnino, sempre più ostinato nella difesa del Patto di Londra, si scontrò in quei giorni, duramente, con il Presidente del Consiglio Orlando per quanto riguardava la città di Fiume, che egli era pronto a sacrificare per il controllo di Zara, Sebenico e di Valona. Non si rese conto e quindi non seppe approntare una politica efficace ed adeguata alle nuove condizioni che la guerra aveva generato. A seguito della posizione espressa dal Presidente Wilson, anche i governi francese e inglese, per quanto riguarda la nostra politica nel Balcani e per la nostra eccessiva espansione in Anatolia e in Africa, andavano maturando una forte ostilità nei confronti dell’Italia, al punto che ambedue i governi chiesero di rinegoziare quanto previsto nel Patto di Londra. Pure manifestando la disponibilità a trattare, Sonnino mantenne la sua posizione intransigente su quelli che considerava gli obiettivi più importanti senza ridurre, di fatto, il divario tra le nostre posizioni e quelle espresse dal Presidente Wilson. Tra il Presidente Wilson e Sonnino vi fu una totale inconciliabilità di vedute e fu considerato dal Presidente americano un ostacolo da rimuovere per costruire “un nuovo ordine nelle relazioni internazionali”.
Più che un facilitatore di soluzioni a favore dell’Italia, divenne il suo maggior ostacolo. Sonnino e il Presidente del Consiglio Orlando presero l’incredibile decisione di non prendere più parte, per il momento, ai lavori del “Consiglio dei Quattro” ( Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia). Tale infausta decisione di abbandonare la  Conferenza di pace, ridusse ulteriormente lo spazio per un accordo, danneggiò il Paese dal punto di vista finanziario, per quanto riguardava i risarcimenti da parte della Germania ed escluse l’Italia dalla spartizione delle ex colonie tedesche in Africa e sul fronte interno accese gli animi della Nazione sul problema di “Fiume italiana”. Infatti, nonostante la nostra assenza, la Conferenza di pace continuò a svolgere il proprio lavoro, preparandosi a concluderlo. Quando si ebbe cognizione del danno prodotto si cercò di correre ai ripari, inviando una Nota di Sonnino agli ambasciatori inglese e francese ( il 2 maggio 1919 ) e poi  presentandosi con Orlando al tavolo delle trattative, preoccupati di un’eventuale dichiarazione di decadenza del Trattato di Londra da parte degli Inglesi e Francesi. Tale ritorno al tavolo negoziale fu dovuto anche al bisogno di “ottenere urgentemente indispensabili crediti americani”. I rapporti ormai del tutto compromessi con gli Alleati furono caratterizzati “da ostilità e freddezza” e quindi non fu possibile alcuna mediazione per l’accoglimento della tesi italiana. Il 19 giugno 1919 a seguito di un voto sfavorevole della Camera, il Ministero Orlando rassegnò le sue dimissioni. Come non notare in tutto l’operato nell’arco temporale della Conferenza di pace un’assoluta imperizia, un venir meno dei fondamenti dello Statuto stesso su cui si basa il fare diplomatico che impone sempre: “di negoziare, continuare a negoziare, negoziare ad oltranza” e non lasciare mai, e poi mai, il Tavolo delle Trattative, perché facendo ciò viene meno la stessa funzione istituzionale? E’ evidente che, a suo tempo, la scelta del giovane Sonnino di abbandonare la carriera diplomatica era quella giusta.
Al suo posto subentrò il nuovo Ministero guidato da Francesco Saverio Nitti che nomina suo Ministro degli Esteri Tommaso Tittoni che da subito dovette affrontare “la grana” del memorandum inglese del 28 giugno, che intima all’Italia di non compiere atti volti a stabilire la sovranità italiana sulla città di Fiume e chiede l’immediato ritiro delle truppe italiane dalle coste dell’Asia minore. La tensione tra l’Italia e i suoi alleati continuerà ad essere alta.
Nell’estate del 1919 Sonnino, stanco, spossato, indebolito politicamente, prende atto delle difficoltà di essere rieletto e decide di non ricandidarsi per la XX legislatura alla Camera dei deputati. Nominato senatore nel 1920, su proposta del suo vecchio avversario politico Giolitti, non prese mai la parola al Senato preferendo dedicare la sua attività alla “casa di Dante” presso Roma. Negli ultimi anni della sua vita le sue posizioni politiche furono favorevoli a Mussolini. Egli morì nella sua casa di Roma il 24 novembre 1922 pochi giorni dopo dell’insediamento del primo ministero Mussolini.
Volutamente ho tralasciato di affrontare la questione della prigionia dei nostri soldati in mano austriaca, le loro durissime condizioni di esistenza e di vita e il modo in cui fu affrontato da Sonnino questo problema. Tale questione, a mio modesto vedere, merita una trattazione più approfondita e separata da questo contesto, per la sua gravità, per i suoi tanti eventi luttuosi ed anche perché ad un secolo da questi fatti non riesco a mantenere il giusto distacco e la fredda razionalità che deve essere sempre presente ad uno studio storico. Prevale la passione civile e il tutto ancora mi indigna.