di Giancarlo Ramaccia
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| Sydney Sonnino all'epoca della Grande Guerra |
Sidney Sonnino un leader per la guerra
Sidney
Sonnino è stato tra i protagonisti assoluti della “grande guerra” e tra i pochi
politici che ricoprirono e mantennero negli anni seguenti il medesimo importante
incarico di governo: quello di Segretario di Stato agli Affari Esteri del Regno
d’Italia. A partire dalla fase che precedette la decisione di entrare in guerra
(il perché, il quando, il come e soprattutto con quale alleanza) fino alla sua
conclusione – dopo la vittoriosa battaglia del Solstizio e dopo anni di duri
sacrifici, lotte, battaglie e lutti infiniti – con la partecipazione alla
Conferenza di pace di Parigi del 1919. Egli indirizzò strategicamente gli
eventi del nostro Paese per un ampio arco temporale, che va dalla metà
dell’anno 1914 a tutto il 1919. Per questo motivo è importante conoscere meglio
la biografia di questo leader politico.
Egli
nacque a Pisa l’11 marzo del 1847 dal barone Isacco e da Giorgina Terry. Suo
padre Isacco Sonnino era un proprietario terriero livornese ed anche banchiere
d’affari, di religione ebraica, era un uomo energico ed attivo e aveva
lungamente soggiornato in Egitto, legandosi ad ambienti del governo vice-reale
del celebre Mohamed-Alì e sempre in Egitto aveva conosciuto e sposato Giorgina
Sofia, nata a Lisbona da genitori inglesi anch’essi trasferitisi in Egitto.
Donna di grande temperamento e di cultura ed educazione protestante.
Figlio
di un livornese che per molti anni era vissuto all’estero e di una gentildonna
portoghese di cultura e mentalità inglese, Sidney Sonnino crebbe in un ambiente
cosmopolita dove la dimensione e le problematiche internazionali erano qualcosa
di abituale e naturale. Svolse i suoi studi a Pisa, seguendo i corsi
universitari di Scienze politiche e di Economia. A vent’anni, ossia nel 1867,
entrò a far parte del servizio diplomatico del Regno d’Italia. La sua prima
destinazione fu la legazione di Madrid per poi successivamente trasferirsi a
Vienna e a Berlino ed infine ritornare di nuovo a Madrid. Deluso e
insoddisfatto dell’attività svolta nel servizio diplomatico, preferì
abbandonare la carriera diplomatica e tornare a Firenze dove riprese gli studi
di Scienze politiche e di Economia. In quegli anni fu assiduo frequentatore del
salotto di Emilia Peruzzi, dove potè incontrare importanti intellettuale e
scienziati del tempo e venire a conoscenza delle dottrine evoluzionistiche e
sociali. I suoi interessi si incentrarono sulle problematiche relative
all’economia agraria e sulla condizione sociale dei contadini nel nostro Paese;
sul funzionamento delle istituzioni parlamentari e con maggiore interesse
sull’introduzione del “suffragio universale diretto”, che lo portava
inevitabilmente ad avvicinarsi e poi a svolgere una intensa attività politica. Promosse
indagini di ricerca sul campo ed elaborò progetti di riforma, i cui risultati
furono resi pubblici in libri che alimentarono il dibattito politico degli anni
settanta.
Eletto Consigliere comunale di San Miniato (Pisa)
nel 1870 e poi sindaco a Montespertoli (Firenze) nel 1887, dove in precedenza
suo padre Isacco aveva ricoperto la medesima carica, nelle elezioni del 16 e 23
maggio 1880, per la prima volta, venne eletto deputato nel Collegio di San
Casciano Val di Pesa. Verrà rieletto, in seguito, per undici legislature e
nominato senatore del Regno il 3 ottobre 1920.
In
questa sua prima elezione si presentò ai suoi elettori libero da ogni legame di
gruppo o fazione, interessato a combattere “l’intrigo e l’immoralità” da
qualunque parte si mostrassero, desideroso di estendere il diritto di voto a
tutti e pronto a risolvere la “questione sociale” e ad intervenire nella lotta
“tra lo Stato e la Curia romana”. Va detto che i suoi primi atti e discorsi
tenuti alla Camera dei Deputati riguardarono la tutela dei lavoratori e
l’abolizione della tassa sul macinato, per poi affrontare nei mesi ed anni
successivi la riforma della legge elettorale politica.
Chiaramente
influenzato dalla ideologia liberale, ben presto manifestò il suo dissenso nei
confronti dei leader liberali del momento su temi quali: la rappresentanza
politica; la questione agraria; lo stato in cui versava il Mezzogiorno
d’Italia; la questione sociale. Molto attivo nelle commissioni parlamentari ed
in aula, in breve tempo diventa uno dei maggiori esponenti del “Centro”,
convinto di dover realizzare un partito nuovo sulle rovine della “Destra e
Sinistra storica”.
Dopo
l’adesione dell’onorevole Minghetti, nel maggio del 1883, alla politica di
Depretis, aderisce al trasformismo. Si schiera con l’opposizione meridionale al
governo Depretis nel tentativo di riequilibrare i rapporti economici
sfavorevoli al Meridione d’Italia. E’ favorevole al terzo ministero Cairoli,
appoggia il quarto ministero Depretis.
Sonnino
è da subito favorevole alla Triplice Alleanza. L’alleanza con la Germania e con
l’Austria-Ungheria è per lui utile al rafforzamento della posizione strategica
dello Stato e serve ad acquisire maggiore rilevanza sul piano internazionale e
appoggi utili nei giorni del pericolo. Egli afferma, nel 1881, che le alleanze
tra le nazioni non devono fondarsi sulle somiglianze tra gli ordinamenti
statali, ma sulla pura convenienza
internazionale.
Il
27 ottobre 1881 sua maestà Umberto I si reca a Vienna per una visita ufficiale
che formalizza il riavvicinamento tra l’Italia e l’Austria, provocato dalla
vicenda tunisina. In quei giorni l’Italia ottiene assicurazioni di un appoggio
austriaco nel caso essa voglia intervenire in Africa. Inizia la trattativa che
porterà gli ambasciatori Felice Nicolis de Robilat e il principe Heinrich von
Reuss rappresentanti nella capitale austriaca dell’Italia e della Germania, con
il conte Gusztav Zsigmond Kalnoky von Korospatak, ministro degli Esteri
austriaco, a firmare, il 20 maggio del 1882, il trattato della Triplice alleanza.
Sonnino,
pur entusiasta della firma, ne critica i modi in cui l’accordo è stato
raggiunto e la mancanza di garanzie per l’Oriente e il Mediterraneo. Egli in
tutta la sua vita politica fu sempre attento a ciò che avveniva nei Balcani e
nel Vicino Oriente. Dal 1878, l’anno in cui le truppe russe arrivarono fino a
Costantinopoli e la Turchia fu costretta alla pace di Santo Stefano (3 marzo) e
l’Inghilterra, rifiutando i termini di quella pace, si allea alla Turchia,
favorendo l’occupazione della Bosnia Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria
(occupazione che sarà foriera di dissidi insanabili tra l’Austria e la Russia
per l’influenza sui Balcani, acuita dalla risoluzione del Congresso di Berlino
voluto, nei mesi di giugno-luglio, da Bismarck, per dirimere la cosiddetta
“questione d’oriente”, a svantaggio della Russia che otterrà solo la Bessarabia
e con la conferma della indipendenza della Serbia e della Romania, oltre alla
costituzione del nuovo Stato della Bulgaria, con l’Austria che ottiene l’amministrazione
politico militare della Bosnia Erzegovina), Sonnino manifesterà forte
preoccupazione per l’espansione austriaca e il relativo indebolimento della
posizione internazionale dell’Italia. In discorsi parlamentari ed interventi
politici successivi difende la causa delle nazionalità balcaniche e della
necessità di opporsi alla politica espansionistica austro-ungarica e difende i
diritti all’indipendenza del Montenegro e dell’Albania. A tutto ciò si aggiunge
la preoccupazione per la vicenda tunisina e per l’ incapacità, manifestata dal
governo in carica, di svolgere una proficua politica di difesa degli interessi
nazionali, stringendo alleanze con le potenze centrali e valorizzando i
rapporti con la Gran Bretagna.
Dal
1883 aumenterà la sua ostilità verso la politica estera del governo che si
estenderà anche a quella finanziaria; passando decisamente, nel febbraio del
1886, alla opposizione durante il dibattito sul disegno di legge riguardante
l’assestamento del bilancio statale 1885/1886.
Insieme
ad Antonio Starrabba di Rudinì e con altri dissidenti di destra, dichiarò
guerra ai vecchi leader liberali, chiedendo una politica estera vigorosa, un
rafforzamento dell’Esercito e della Marina, una finanza forte e una politica
interna liberale, che garantisse e tutelasse la povera gente. In breve, una
politica imperiale per l’Italia. In questa fase della sua vita politica si
avvicina a Crispi, di cui apprezza la politica di estendere la presenza
territoriale italiana verso gli altipiani tigrini; convinto che è essenziale,
per l’avvenire dell’Italia, controllare “sia colonie commerciali che quelle
agricole”. Da questo avvicinamento scaturì il suo primo incarico governativo,
come sottosegretario al Tesoro, che dal dicembre del 1888 era guidato da
Costantino Perazzi. Incarico di breve durata, gennaio-marzo1889, perché per
evitare un voto di sfiducia della Camera sulla gestione delle finanze (il
ministro del Tesoro comunica alle Camere che il disavanzo nel bilancio ammonta
a 192 milioni e non a 62, come affermato dal suo predecessore Agostino
Magliari) Crispi e il suo governo si dimettono il 28 febbraio 1889. Il 9 marzo,
ricostituito un nuovo ministero, Crispi nomina al Tesoro Giovanni Giolitti in
sostituzione del Perazzi e Federico Seismit Doda al ministero delle Finanze in
sostituzione di Bernardino Grimaldi. Sidney Sonnino, apprese le nomine
ministeriali, si rifiutò di rimanere come sottosegretario con Giovanni
Giolitti. Non accetterà, nel gennaio 1891, neanche l’offerta di essere il
candidato governativo alla presidenza della giunta del Bilancio della Camera,
avanzata da Antonio di Rudinì che era succeduto alla guida del governo nel
gennaio 1891, perché non condivideva la politica finanziaria e quella africana.
Accettò di far parte del terzo ministero Crispi del 1893 in qualità di ministro
delle Finanze e ad interim del Tesoro; nel rimpasto di governo dell’anno
successivo cedette il ministero delle Finanze a Paolo Boselli mantenendo per sé
quello del Tesoro fino alla caduta del governo, che avvenne nel marzo del 1896.
E’
dal 1893 che possiamo datare l’inizio di un rapporto di opposizione e di
antagonismo con Giolitti, a seguito dello scandalo della Banca Romana e delle
vicende dei Fasci siciliani. E’ in questo periodo che il Sonnino, con il suo
sottosegretario Antonio Salandra, svolge una importante attività di risanamento
della finanza pubblica e del sistema bancario, ottenendo ampi riconoscimenti in
Italia e all’estero che lo inseriranno, a pieno titolo, nel primo rango degli
uomini politici italiani. Passa di colpo
da capo politico di un piccolo gruppo di parlamentari al ruolo
riconosciuto di leader di un ampio schieramento politico.
Dopo
la vittoria abissina di Adua del marzo 1896, è all’opposizione del secondo
ministero del marchese Antonio Starrabba di Rudinì, critico sulla sua scelta di
istituire un alto commissariato in Sicilia e non condividendo la politica
estera di Emilio Visconti Venosta, che subentrava ad Onorato Caetani (il quale
aveva tacitamente rinnovato nel maggio 1896, in base all’articolo 14 del
trattato che prevedeva “il rinnovo automatico per sei anni qualora nessun
contraente lo avesse denunciato l’anno prima della scadenza”, la Triplice
Alleanza. Il governo italiano aveva proposto di inserire nel trattato della
Triplice la dichiarazione ministeriale del 1885, che impegnava l’Italia a non
rivolgere l’alleanza contro l’Inghilterra ottenendo un secco rifiuto da parte
del governo di Berlino. Il Caetani ottenne solamente l’inserimento della
dichiarazione unilaterale dell’Italia, che esclude un suo intervento contro la
Francia e l’Inghilterra unite) ed aveva avallato con la sua firma a Parigi la
convenzione del 30 settembre 1896 tra Italia e Francia in cui si pone termine
al lungo periodo di tensione tra i due governi sulla questione tunisina.
Convenzione che concedeva: il riconoscimento, agli Italiani presenti in Tunisia, dei diritti già
stabiliti nel trattato del 1868 (ossia conservazione della cittadinanza
italiana e diritto di associazione). Per Sonnino tale convenzione era una
concessione alla Francia senza contropartita e un nuovo duro colpo alla
credibilità internazionale del nostro Paese. Negli anni successivi, e in
particolar modo tra il 1899 e il 1901, cambia il suo giudizio sugli indirizzi
di politica estera, resta un convinto triplicista, lo sarà sempre fino al
momento della nostra entrata in guerra al fianco della Triplice Intesa, ma
ricercherà un rapporto di tipo privilegiato con la Gran Bretagna. Egli
scriveva:”Dentro o fuori la Triplice,
l’Italia deve (…) continuare a mantenersi forte, in guisa che la sua amicizia
possa essere preziosa per ognuno e la sua inimicizia non indifferente a nessuno”,
affermazione apparsa su Il Giornale
d’Italia del 10 gennaio 1902. Sonnino non è più il principale francofobo
d’Italia.
Da
questo mutamento di prospettiva ne deriva la sua richiesta al governo
austro-ungarico di specificare i compensi previsti all’articolo 7 del trattato
della Triplice Alleanza nel caso di una espansione territoriale austriaca nella
regione dei Balcani o sulle coste e isole ottomane, nel mare Adriatico o in
quello Egeo.
Durante
i duri anni della crisi di fine secolo, Sonnino operò in maniera decisiva alla
stesura del programma politico e alla formazione del secondo ministero Pelloux,
oltre alle modifiche del regolamento della Camera che dovevano garantire i
diritti della maggioranza parlamentare e snellire le procedure parlamentari. A
seguito delle elezioni politiche del 3 e 10 giugno 1900 e dopo l’assassinio del
re Umberto I, del 29 giugno, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, e la salita
al trono di Vittorio Emanuele III, che guarda con simpatia ad uomini come
Zanardelli e Giolitti e accelera l’evoluzione politica del governo in senso
progressista, Sidney Sonnino pubblica un saggio sulla Nuova Antologia di Firenze dal titolo: Quid Agendum. Appunti di politica ed economia dove delinea un
programma di riforme economiche, giuridiche, sociali (la revisione dei
contratti agrari, la razionalizzazione della giustizia, miglioramenti delle
condizioni degli insegnanti) che rinsaldino la maggioranza liberale in una
prospettiva di “governo forte” come prospettato nel suo articolo del 1897
intitolato Torniamo allo Statuto.
Tale invito viene accettato dall’onorevole Giolitti, che su La Stampa di Torino pubblica un articolo
di risposta dal titolo Per un programma e
per l’unione dei partiti liberali dove accetta la proposta di un accordo
tra le forze liberali, ma giudica generiche le idee di Sonnino sottolineando
l’urgenza di una riforma del sistema tributario vigente, che è per lui la vera
causa del malcontento popolare. Con ciò Giolitti mira ad impedire il formarsi,
attorno alla persona del Sonnino, di una maggioranza conservatrice e di
destra. Sonnino, accettando la riforma
tributaria ed entrando nel dettagli tecnici, in un successivo articolo
intitolato Questioni urgenti propone
la formazione di “un grande partito liberale” che sia il centro organizzativo
delle politiche governative e istituzionali. Nel medesimo anno 1901 fondò a
Roma Il Giornale d’Italia organo di
quel partito delle istituzioni che si oppone e contrasta i partiti sovversivi e
che diffonde la cultura dell’industria manifatturiera e la tutela del mondo
agricolo. Egli ne affidò la direzione al giornalista Alberto Bergamini che
proveniva dal Corriere della Sera di
Milano, non solo perché condivideva le valutazioni politiche, ma soprattutto
per una reale sintonia caratteriale. Ambedue erano schivi, austeri, silenziosi,
decisionisti, testardi e soprattutto incapaci di modificare le loro idee al
seguito dei mutati scenari sociali.
Nel
primo quindicennio del Novecento Sonnino, in qualità di leader dell’opposizione
costituzionale, rappresentò l’alternativa politica a Giolitti. Un’alternativa
non solo di programma economico e sociale, ma anche di politica estera. Pur
approvando il rinnovo della Triplice Alleanza, del giugno del 1902, che
riproduceva in grandi linee il testo del 1891, e l’operato del nostro ministro
degli Esteri Giulio Prinetti sull’opportunità di prolungare la validità del
trattato per i successivi dodici anni con eventuale denuncia dopo i primi
cinque; di stipulare trattati commerciali tra l’Italia e l’Austria-Ungheria; di
auspicare l’ingresso dell’Inghilterra nella Triplice e l’inserimento di
garanzie di tutela degli interessi italiani a Tripoli, e pur non ottenendo da
Berlino e da Vienna il riconoscimento del carattere difensivo dell’alleanza,
Sonnino criticò duramente la politica del ministro degli Esteri Tommaso Tittoni
(terzo ministero Giolitti) in occasione della crisi bosniaca del 1908. Infatti,
nel mese di gennaio 1908 il governo autro-ungarico annunciava l’intenzione di
costruire una linea ferroviaria dal
confine della Bosnia al confine macedone, attraversando il Sangiaccato di Novi
Bazar. La notizia produceva preoccupazione e irritazione nei nostri ambienti
industriali, che avevano previsto una espansione economica in quella stessa
direzione e stavano valutando la costituzione e la costruzione di una ferrovia
Danubio-Adriatica per collegare la Serbia al porto albanese di San Giovanni di
Medua, territorio sotto il dominio dei Turchi. Appena nove mesi dopo, il 6
ottobre del 1908, il governo austriaco si annette la Bosnia-Erzegovina,
ufficialmente sottoposta alla Turchia, ma amministrata e militarmente occupata
dall’Austria, in base alle decisioni prese al Congresso di Berlino del 1878. In
una sua comunicazione in merito, il ministro Tommaso Tittoni, che era stato
informato il 25 settembre dal suo collega austriaco Alois Lexa von Aehrenthal
della volontà austriaca di porre termine all’occupazione militare del
Sangiaccato di Novi Bazar e quindi di avere mano libera sulla zona, afferma che
tale annessione da parte dell’Austria-Ungheria non viene a turbare gli
equilibri politici nei Balcani e non mette in pericolo la pace. A fine novembre
gravi incidenti si verificheranno a Vienna tra studenti austriaci e italiani,
che chiedono la fondazione di una Università italiana; essi creeranno ulteriori
nuove tensioni tra i due governi. La Camera, in ogni caso, il 4 dicembre
approverà con 297 voti favorevoli e 140 contrari la politica estera del governo
e Giolitti dichiarerà che “la pace deve essere l’obiettivo della nostra
politica quando non sono in gioco né interessi vitali né l’onore del paese”.
Sonnino non condividerà tale posizione, individuando nella scarsa
armonizzazione tra direttive di politica nazionale e quelle di politica estera
e militare, lo scacco diplomatico italiano. Chiederà con convinzione di
procedere a migliorare i rapporti con la Francia pur riaffermando la sua lealtà
alla Triplice Alleanza.
Le
differenze tra la politica espressa da Sonnino e quella di Giolitti sono
molteplici; esse vertono su una diversa idea di partito liberale, sulla
politica interna e le sue priorità, sulla tattica delle alleanze, sui rapporti
con i cattolici. Infatti, mentre Giolitti favorì le intese clerico-moderate che
portarono alle elezioni del 6 e 13 novembre del 1904 e a quelle del 7 e 14
marzo 1909 e alla sospensione del non
expedit per giungere al Patto
Gentiloni, che nelle elezioni del 26 ottobre 1913 riammetteva i cattolici
nell’agone politico, Sonnino auspicava una più netta separazione tra Stato e
Chiesa, “tra scuola laica e insegnamento religioso”. Egli, pur essendo il padre
Isacco di religione ebraica, fu battezzato e sepolto secondo il rito anglicano
professato dalla madre, ma fu sempre lontano dai dogmi e dalle liturgie delle
diverse fedi rivelate. La sua religione fu sempre quella della sola coscienza
individuale. Per questo la sua ostilità nel confronti del papato fu sempre
netta e senza possibilità alcuna di conciliazione.
L’8
febbraio del 1906, a seguito della crisi del ministero Fortis, venne nominato
per la prima volta presidente del Consiglio dei Ministri. Invitò i radicali a
far parte della compagine governativa e caratterizzò il suo programma con
significativi provvedimenti legislativi riguardanti il Meridione d’Italia. La
maggioranza che sostenne il governo rispecchiava l’intesa tra Centro e
Radicali, tra il gruppo di Rudinì e quello di Luzzatti, esponente della vecchia
Destra, più l’appoggio esterno dei socialisti. Il governo è composto in
prevalenza da uomini appartenenti alla Destra e al Centro: presidente del
Consiglio e ministro degli Interni ad interim Sidney Sonnino; Francesco
Guicciardini agli Esteri; Antonio Salandra alle Finanze (numero due della
corrente Il Centro guidata dal Sonnino e già suo sottosegretario alle Finanze
nel governo Crispi); Luigi Luzzatti al Tesoro; Paolo Boselli all’istruzione;
Pietro Carmine ai Lavori pubblici; Alfredo Baccelli alle Poste e Telegrafi; il
generale Luigi Majnoni d’Intignano alla Guerra; l’ammiraglio Carlo Mirabello
alla Marina; Ettore Sacchi alla giustizia ed Edoardo Pantano all’Agricoltura.
Dopo cento giorni, il 18 maggio 1906, il
ministero si dimette. Sonnino non riesce a vincere l’ostilità della sua
maggioranza parlamentare sulla questione del riscatto delle ferrovie
meridionali.
Il
re incarica Giolitti di costituire il suo terzo ministero. Breve fu la durata
anche del secondo ministero Sonnino.
Il
2 dicembre 1909 Giolitti presenta le dimissioni al re, motivandole con
l’ostilità della Camera al suo progetto di riforma tributaria da lui presentato
nel novembre e che prevedeva un’imposta progressiva globale sui redditi e la
diminuzione dell’imposta sullo zucchero. La scelta di far cadere il governo su
una riforma democratica era stata maturata dal Giolitti stesso, nella
convinzione di un ritorno al potere, in seguito al fallimento delle sue
proposte sulla questione delle convenzioni marittime. Invece il re, a sorpresa,
incarica Sidney Sonnino di costituire il suo secondo ministero. Egli tiene per
sé anche il ministero dell’Interno; Francesco Guicciardini è nominato agli
Esteri; Antonio Salandra al Tesoro; Vittorio Scialoia alla Giustizia; Luigi
Luzzatti all’Agricoltura, Industria e Commercio; Paolo Spingardi al ministero
della Guerra; l’ammiraglio Giovanni Bettolo alla Marina; Giulio Rubini ai
Lavori pubblici; Ugo Santonofrio del Castello alle Poste e Telegrafi. Il
ministero ha una prevalenza di esponenti del Centro, della Destra Luzzattiana e
della Sinistra Democratica, ma con quest’ultimo raggruppamento l’intesa
politica si rivelò da subito impossibile e, quindi, il ministero dovrà reggersi
sul voto di un gruppo di deputati giolittiani.
A
gennaio del 1909 tra Italia e Austria torna a salire la tensione diplomatica.
Un articolo pubblicato dal Danzer’s Armèe
Zeitung, giornale viennese, vicino ai vertici militari imperiali, sostiene
che l’Austria dovrebbe trarre occasione dalla difficile situazione italiana,
causata dal terremoto che ha appena devastato Reggio Calabria e Messina, per
scatenare contro l’Italia una guerra preventiva. Il ministro degli Esteri
austriaco Alois Lexa von Aehrenthal si dissocia dall’articolo e dà al nostro
ministro degli Esteri Tittoni assicurazioni riguardo alla prossima istituzione
dell’Università italiana a Trieste (il progetto di legge del governo austriaco
non verrà mai discusso). A seguito di ciò, il ministro Tittoni è pronto a
rassegnare le dimissioni, ma Giolitti lo convince a ritirarle e nella primavera
a riprendere le trattative per giungere ad una definizione sulla questione
balcanica. Il 20 ottobre il ministro degli Esteri Alois von Aehrenthal comunica
al suo collega Tittoni la disponibilità del governo austriaco ad un accordo che
impegni le due nazioni a consultarsi reciprocamente sulle questioni balcaniche
e garantisce compensi all’Italia, in base all’articolo 7 del trattato della
Triplice (rinnovato automaticamente nel 1907), nel caso di una nuova
occupazione austriaca del Sangiaccato di Novi Bazar. Alcuni giorni dopo, il 24
ottobre, nel castello reale di Racconigi presso Torino, in occasione della
visita dello zar Nicola II di Russia, si sottoscrive un accordo, che rimarrà in
un primo tempo segreto, e che prevede il comune impegno dell’Italia e della
Russia a perseguire il mantenimento dello “status quo” nella penisola
balcanica; di favorire le ambizioni di autonomia nazionale dei popoli della
regione; di partecipare congiuntamente ad eventuali trattative con altri Stati
sulla questione balcanica e di procedere in modo concordato sul piano
diplomatico e infine concordano di considerare con benevolenza gli interessi
reciproci: quelli italiani in Tripolitania e Cirenaica e quelli russi sugli
stretti. Tale accordo mira a bloccare l’espansione austriaca nei Balcani. A
seguito di questi eventi Sonnino si convince che la Triplice Alleanza può
essere lo strumento per la soluzione pacifica della “questione nazionale
italiana” e invita il suo ministro degli Esteri, Francesco Guicciardini a
continuare la trattativa con il ministro degli Esteri austriaco, condotta in precedenza
dal Tittoni sulla base dell’accordo segreto come quello stipulato con la Russia
il 24 ottobre. Con uno scambio di note diplomatiche, l’Austria-Ungheria
s’impegna a non rioccupare il Sangiaccato senza un accordo preventivo con
l’Italia basato sul principio del consenso e reciprocamente si impegnano a
trattare in modo concordato le questioni balcaniche e di comunicarsi a vicenda
eventuali iniziative prese da altre potenze per modificare lo status quo nei
Balcani. Sonnino, anche dopo lo scambio di tali note diplomatiche con
l’Austria, invita il suo ministro degli Esteri a mantenere l’iniziativa
diplomatica nei confronti dell’Austria al fine di precisare quali compensi
territoriali (il Trentino, l’Istria occidentale o altri territori) avrebbe
avuto l’Italia nel caso di una espansione dell’impero asburgico.
L’11
febbraio 1910 il Presidente del Consiglio Sidney Sonnino espone alla Camera il
suo programma di governo, dopo le ferie parlamentari di fine anno, delineando
un vasto programma di riforme riguardante, tra l’altro, la questione delle
sovvenzioni marittime, l’istituzione del ministero delle Ferrovie, il riordino
della legislazione doganale, l’assistenza ospedaliera e l’assunzione, da parte
dello Stato, delle spese di istruzione elementare. Con 193 voti favorevoli e 83
contrari, presenti solo 287 deputati su 508, ottiene la fiducia della Camera.
Il 21 marzo 1910 Sonnino si dimette. La sua maggioranza parlamentare rigetta il
progetto di legge relativo alle convenzioni marittime. Succede al suo ministero
quello dell’onorevole Luzzatti, con Antonino di San Giuliano, che sostituisce
Francesco Guicciardini al ministero degli Esteri e che ne continuerà la
trattativa con l’Austria per la definizione degli eventuali compensi
territoriali.
Ritornato
al potere Giolitti, dopo le dimissioni del ministero Luzzatti, Sonnino
manifestò tutta la sua contrarietà e ostilità al governo in un importante
discorso tenuto il 7 aprile del 1911; accusò il Presidente del Consiglio
Giolitti di doppiezza politica, criticò duramente il suo tentativo di mantenere diviso il partito liberale in una
destra e in una sinistra e accusò Giolitti di favorire la politica “dei
sovversivi”. Unico punto di convergenza il sostegno alla Guerra di Libia che
garantiva, secondo lui, la salvaguardia dei nostri commerci, una presenza
italiana nel Mediterraneo e una espansione coloniale che alleviava la piaga
della nostra emigrazione. Occupare Tripoli era per lui un problema prioritario
e quindi “nulla importava” se Giolitti o altri prendevano tutta la gloria. La
Guerra alla Turchia, che portò a fondare la colonia della Libia, indebolì
notevolmente l’Impero Ottomano, contro il quale nell’ottobre del 1912 entrarono
in guerra: la Bulgaria, la Serbia, il Montenegro e la Grecia. Sonnino seguì con
particolare simpatia la Guerra Balcanica perché considerava “un abominio e una
vergogna” il perdurare in Europa del dominio turco. A dicembre del 1912 la Turchia, ripetutamente battuta sul campo
dalla “quadruplice alleanza balcanica” firma un armistizio con la Serbia e la
Bulgaria, continuando le ostilità contro la Grecia e il Montenegro. Il 30
maggio 1913 si conclude la prima Guerra Balcanica, con la firma del Trattato di
Londra, che stabilisce la spartizione della Macedonia tra la Serbia, la
Bulgaria e la Grecia. La Serbia si vede invece negare lo sbocco sul mare
Adriatico da un’intesa tra Austria e Italia che porterà alla creazione dello
Stato Indipendente dell’Albania. Non è questa l’unica intesa che sottoscriverà
l’Italia con l’Austria nel medesimo anno. Verrà firmata anche una convenzione
navale che andava a rinsaldare il rinnovo anticipato del Trattato della
Triplice del dicembre 1912. Tutte queste vicende furono dal Sonnino seguite con
attenzione e condivise, anche perché dopo le elezioni politiche del 1913 egli stava
procedendo allo scioglimento del suo gruppo politico, i cui aderenti
confluiranno nel nascente “gruppo parlamentare liberale” che aveva in Antonio
Salandra il suo punto di riferimento, e
collaboratore di lungo corso del Sonnino e numero due del gruppo del Centro.
Il
7 marzo 1914, al termine del dibattito sulle spese relative alla guerra di
Libia, in parte già sostenute e in parte da sostenere, che si svolse alla
Camera dei Deputati, a partire dal 10 febbraio, durante il quale Sonnino rende
noto l’ammontare del disavanzo del bilancio e che la Camera approverà a grande
maggioranza, Giolitti, che in precedenza
aveva deciso di dimettersi, non pone la questione di fiducia, accelerando in
questo modo le dimissioni dei ministri radicali. Il 10 marzo a seguito di ciò
si dimette l’intero ministero. Il 12 marzo il Re propone a Sonnino di
costituire un nuovo Governo ma egli giudica non fattibile un suo ministero
vista l’opposizione della maggioranza giolittiana e quindi il giorno dopo
declinerà l’incarico. Il Re, su consiglio di Giolitti, affiderà l’incarico ad
Antonio Salandra che il 21 marzo vara il suo primo ministero così composto:
Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Antonio Salandra;
Paternò-Castello di San Giuliano, Esteri; Ferdinando Martini alle Colonie;
Giulio Rubini al Tesoro; Luigi Rava alle Finanze; Luigi Dari alla Giustizia;
Edoardo Danco all’istruzione; Augusto Ciuffelli ai Lavori Pubblici; Vincenzo
Riccio alle Poste e Telegrafi; Giannetto Cavasola all’Agricoltura; Ammiraglio
Enrico Millo alla Marina; mentre al Dicastero della guerra inizialmente sarebbe
dovuto andare il Generale Carlo Porro che pone come condizione a Salandra la
richiesta di procedere con uno stanziamento di 600 milioni, in quattro anni,
per le spese militari al fine di rafforzare l’esercito. Salandra dopo questa
richiesta preferì nominare il Generale Domenico Grandi, più disponibile e
accorto politicamente.
Il
5 aprile 1914, tra gli applausi convinti di Sonnino, la Camera vota la fiducia
con 303 voti favorevoli (tra cui l’intera compagine giolittiana), 122 contrari
e 9 astenuti.
Il
28 giugno 1914, a Sarajevo nella Bosnia, viene assassinato l’Arciduca Francesco
Ferdinando erede al trono austriaco e la sua consorte l’Arciduchessa Sofia, per
opera di Gavrilo Princip, giunto in Serbia con la complicità delle autorità di
Belgrado, in un clima di forti tensioni politiche tra l’Austria e la Russia
protettrice degli Stati Slavi. Da subito Sonnino comprese che l’evento poneva
problemi del tutto nuovi alla classe dirigente italiana e che si aprivano
opportunità mai scandagliate prima all’Italia. Il Governo Salandra, tramite il
suo Ministro degli Esteri San Giuliano, invita i nostri rappresentanti in
Germania, Russia e Romania a manifestare la preoccupazione del Governo Italiano
per le manifeste intenzioni belliche Austro-Ungariche nei confronti della
Serbia e chiede al Governo Russo di fare opera di mediazione e di moderazione
tra le parti, ma l’Austria-Ungheria il 23 luglio presenta un ultimatum alla
Serbia, dopo aver ottenuto, il 6 luglio, il pieno sostegno alle sue tesi da
parte della Germania.
Il
testo dell’ultimatum sarà comunicato al Governo Italiano, come a tutti i
governi europei, il 24 luglio.
Tale
decisione, che contrasta con la lettera del Trattato e con le note diplomatiche
vicendevolmente scambiate a suo tempo tra i nostri due paesi, nasce dal timore
che l’Italia possa avanzare richieste di compensi territoriali a seguito di
un’espansione austriaca nei Balcani, come previsto dal Trattato della Triplice
Alleanza. Questo comportamento austriaco getta nel panico la nostra classe
dirigente tutta composta da “convinti triplicisti”. Al fine di evitare
coinvolgimenti sgradevoli ed automatici il medesimo giorno il Ministro degli
Esteri San Giuliano invia una lettera agli ambasciatori italiani a Berlino e a
Vienna: Riccardo Bollati e Giuseppe Avarna di Gualtieri, nella quale
richiamandosi al testo del Trattato di Alleanza, afferma che l’Italia non ha
alcun obbligo di aiutare l’Austria, qualora questa per effetto dell’ultimatum
alla Serbia si trovi in Guerra con la Russia, dal momento che l’Austria non
avrebbe dovuto agire senza un preventivo accordo con gli alleati. Egli
scriverà, il 26 luglio, una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio
Salandra esprimendo la sua convinzione, ricavata dalle trattative dei giorni
precedenti con il Governo austriaco, che l’Austria sia disposta a cedere
all’Italia il Trentino.
Il
28 luglio 1914 l’Austria dichiara guerra alla Serbia. Il Governo Italiano
immediatamente convocato (il 31 luglio), decide che “per il momento non è possibile entrare in guerra” ma non rilascia
alcuna comunicazione pubblica. Nel medesimo momento il Ministro degli Esteri
inglesi e quello russo avanzano agli ambasciatori Guglielmo Imperiali di
Francavilla (Londra) e Andrea Carlotti di Riparbella (San Pietroburgo) la
richiesta di una entrata in guerra dell’Italia a loro fianco.
Il
2 agosto il Governo Salandra decide la neutralità dell’Italia. Sonnino, da
convinto triplicista, e motivato dalla convinzione di una rapida vittoria austro-tedesca
manifesta la sua contrarietà e sostiene pubblicamente che l’Italia avrebbe dovuto rimanere fedele alla Triplice Alleanza.
Solo
due mesi dopo Sonnino rivede la sua tesi interventista considerando
l’impreparazione militare del Paese, la vittoria francese sulla Marna che
blocca l’avanzata tedesca e soprattutto a seguito delle prime riservate
informazioni riguardanti il negoziato che il nostro Ministro degli Esteri San
Giuliano ha promosso (con una informativa “segretissima” a Salandra in data 9 agosto)
con i paesi dell’Intesa.
Con
la morte del Ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano, il 16 ottobre, e a
seguito della breve crisi del primo ministero Salandra, il 5 novembre 1914
Sonnino accetta la proposta avanzata da Salandra e dal Re di guidare, nel secondo Ministero Salandra,
il Ministero degli Esteri. Tale carica sarà mantenuta in tutti e tre i governi
di guerra, Salandra, Boselli, Orlando. In questo modo si ricostituisce nel
governo la coppia che aveva guidato il “centro” politico ed è anche la coppia
che di fatto prenderà tutte le decisioni politiche che porteranno l’Italia ad
entrare in guerra al fianco dell’Intesa. Va segnalato che lo “Statuto
Albertino” all’art.5 stabilisce che “al
Re solo appartiene il potere esecutivo (…) comanda tutte le forze di terra e di
mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza”, ma sua
maestà Vittorio Emanuele III e la corona, in tutta la vicenda della grande
guerra, si ritaglieranno un ruolo appartato, di tipo notarile, lasciando
decidere in merito gli uomini forti del governo.
Sonnino
nella nuova veste di Ministro, tra il novembre del 1914 e il febbraio del 1915,
riaprì i negoziati con gli alleati della Triplice, cercando di trovare un
accordo sulla base dell’art.7 del Trattato che prevedeva la cessione dei
territori dell’Impero Austro-Ungarico come compenso per le conquiste asburgiche
nei Balcani e per “la posizione di neutralità” mantenuta dall’Italia nei
confronti delle contrapposte alleanze. Il prolungarsi della trattativa e il non
pieno soddisfacimento alle nostre richieste da parte del governo
austro-ungarico portarono all’insuccesso dei negoziati, e quindi nel marzo del
1915 iniziò la trattativa con la Triplice Intesa che si concluse con la firma
del Patto di Londra del 26 aprile 1915 e di seguito con l’intervento italiano
in guerra. Ciò avvenne nonostante l’intero Paese fosse schierato a favore della
neutralità (non solo le forze politiche: i socialisti, la grande maggioranza
dei cattolici, il partito di Giolitti; ma interi settori della società civile
quali: il mondo contadino, il movimento operaio, gli agrari, tutti i
parlamentari veneti, l’aristocrazia fiorentina, l’entourage del re decisamente
germanofilo, ambasciatori fortissimamente triplicisti, una parte consistente
della classe dirigente del Paese, per non parlare della Chiesa cattolica e dei
vertici militari poco propensi a muovere guerra al trentennale alleato),
neutralità che aveva in Giolitti il più solido sostenitore.
Giolitti
era convinto che sarebbe stato possibile ottenere “parecchio” dal governo di
Vienna per “la via diplomatica” visto che il Paese e l’esercito non erano in
grado di sostenere una guerra contro gli ex alleati, che si prevedeva lunga,
difficile, onerosa e con conseguenze imprevedibili.




