di Giancarlo Ramaccia
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| Sydney Sonnino in una immagine dei primi del novecento |
II Parte
Il
Patto di Londra, firmato con le potenze dell’Intesa, e che rimarrà segreto fino
al 1917, fissa compensi territoriali per l’intervento dell’Italia al fianco di
Inghilterra, Francia, Russia e la impegna ad entrare in guerra al loro fianco
entro un mese dalla data della firma. L’Intesa si impegna a far ottenere
all’Italia: il Trentino, il Tirolo
cisalpino fino al Brennero (abitato da popolazione tedesca), Trieste, Gorizia,
Istria, gran parte della Dalmazia, il protettorato sull’Albania e il possesso
della città di Valona, le isole del Dodecaneso, il bacino carbonifero di Adalia
in Asia Minore e alcuni possedimenti coloniali tedeschi in Africa (non ben
specificati). Come si vede, dall’elenco delle concessioni manca, da parte
dell’Italia, una visione strategica d’insieme, sembra un elenco di acquisti di
un bottegaio; ci si dimentica della città di Fiume e delle isole del Quarnaro,
si insiste sulla Dalmazia senza precisare i confini territoriali, sul
protettorato dell’Albania quando all’Italia basta il possesso della città di
Valona per controllare la regione, si richiedono colonie tedesche in Africa e
si trascurano più concreti interessi nel vicino oriente. E’ evidente che in
assenza di un luogo deputato ove discutere le questioni strategiche e di
sicurezza per il Paese, si procede a consultazioni di tipo privatistico, che
possono inficiare gravemente gli interessi di tutta la nazione. Si trascurano
gli aspetti militari della nostra entrata in guerra; essi saranno definiti
successivamente da apposite convenzioni tra i diversi Stati Maggiori.
Il
3 maggio 1915, con una nota al governo di Vienna, Sonnino denuncia la Triplice
Alleanza.
Il
6 maggio, ricevendo l’ambasciatore a Roma Karl von Macchio, Sonnino giudica
insufficienti le nuove offerte austro-ungariche, che non sono molto più consistenti
di quelle avanzate precedentemente dall’Austria e ribadisce la denuncia del
trattato della Triplice Alleanza, riservandosi di affidare ad un eventuale
parere favorevole del governo italiano la riapertura delle trattative. Il
giorno successivo Sidney Sonnino informa il Consiglio dei Ministri che l’Italia
si è impegnata a entrare in guerra a fianco dell’Intesa entro il 25 o 26
maggio, dando una informativa sommaria e superficiale su quanto negoziato con i
Paesi dell’Intesa, e che l’Austria, venuta a conoscenza di tali accordi, ha
tentato di riaprire le trattative con l’Italia, e questo, secondo lui, per
comprometterla di fronte all’opinione pubblica europea. Dopo un lungo e acceso
dibattito nel Consiglio dei Ministri, si approva la scelta dell’intervento (da
notare che non si approva l’operato del ministro) e ci si impegna a dimettersi
nel caso di un voto contrario alla Camera, che in base all’articolo 5 dello
Statuto Albertino deve approvare i trattati che comportano oneri finanziari per
lo Stato. A questo punto interviene il re Vittorio Emanuele III che, fin dal 29
aprile, su suggerimento di Sonnino e Salandra si era impegnato personalmente
con l’invio di una serie di telegrammi al re d’Inghilterra, allo zar di Russia
e al presidente della repubblica francese ad entrare in guerra al loro fianco.
Al re non resta che dichiarare pubblicamente di essere pronto ad abdicare in
caso la Camera bocci l’intervento a fianco dell’Intesa, aprendo così una
gravissima crisi istituzionale.
Giolitti
rientra a Roma e propone a Salandra di liberare l’Italia dagli impegni presi
con l’Intesa e di votare la ripresa delle trattative con l’Austria. A seguito
di ciò, il 12 maggio, 320 deputati e un centinaio di senatori, ossia la
maggioranza parlamentare, che ha ricevuto solo informazioni vaghe e reticenti
sui termini del “Patto di Londra”, lasciano a casa di Giolitti il proprio
biglietto da visita per sottolineare pubblicamente la loro adesione alla linea
neutralista.
Salandra
si dimette e il 16 maggio, a seguito di violente manifestazioni interventiste
di una minoranza organizzata, il re respinge le dimissioni del governo
Salandra, dopo che Giolitti aveva affermato pubblicamente di non volere la
caduta del ministero e aver rifiutato la proposta avanzata dal re di guidare un
nuovo ministero. Il 21 maggio il Parlamento, pur contrario, concede i poteri
straordinari al governo in caso di guerra. Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in
guerra contro l’Austria-Ungheria.
Sonnino,
nonostante il successo della scelta dell’intervento a favore dell’Intesa, viene
accusato dai nuovi alleati di aver limitato le ostilità soltanto contro
l’Austria e di non aver permesso al Consiglio dei ministri di dichiarare
immediatamente guerra alla Germania (non dimentichiamo che Sonnino era stato un
convinto triplicista).
Dopo
la crisi del governo Salandra (12 giugno 1916) e a seguito della “Strafexpedition” del 14 maggio 1916
(offensiva austriaca in Trentino), gli alleati considereranno loro interesse
fondamentale la presenza e la permanenza di Sidney Sonnino alla guida del
Ministero degli Esteri; pertanto il nuovo governo guidato dal settantottenne
Paolo Boselli, liberale di destra, gli confermerà l’incarico.
Solo
il 27 agosto 1916 fu fatta pervenire a Berlino la dichiarazione di guerra del
governo italiano e solo perché il 16 agosto le truppe italiane entrarono a
Gorizia e si ricreò nel Paese un clima di fiducia per la vittoria. Nei duri
anni di guerra Sonnino si occupò esclusivamente delle questioni balcaniche e
del conseguimento degli obiettivi fissati nel Patto di Londra, senza rendersi
minimamente conto del mutare dello scenario politico internazionale e delle
condizioni sociali italiane. Questo suo limite lo portò a durissimi scontri
contro la nota del primo agosto 1917 di sua santità Benedetto XV che invitava i
governi a raggiungere “una pace giusta e duratura”e a non comprendere il ruolo
e la partecipazione degli Stati Uniti nella grande guerra, la rivoluzione
d’ottobre in Russia, il mutamento profondo che avvenne in Italia con la
sconfitta di Caporetto.
Con
l’affidamento a Vittorio Emanuele Orlando della guida del nuovo governo (25
ottobre 1917), Sonnino fu riconfermato nell’incarico, ma ormai era un uomo
incapace di produrre una fattiva politica estera. Spaventato dagli eventi che
avevano modificato il quadro internazionale e temendo che essi potessero
cambiare il complesso degli accordi sottoscritti, divenne l’intransigente
rappresentante dell’applicazione “automatica” del Patto di Londra. Tale difesa
si scontrava con la politica estera propugnata dal Presidente Thomas Woodrow
Wilson che intendeva far valere nuovi principi e non riconosceva alcun valore
vincolante al Patto di Londra. Il Presedente Wilson e la sua “new diplomacy” prevedeva la
sopravvivenza dell’Austria-Ungheria, nostro nemico ereditario, a condizione che
venisse concessa un’ampia autonomia ai popoli che ne facevano parte e
riconosceva all’Italia il diritto a ridefinire i confini “lungo linee di
nazionalità chiaramente riconoscibili”. Sonnino contestava questa impostazione
perché contraddiceva i fini di guerra dell’Italia. Egli era ossessionato dalla
questione adriatica che per lui significava la legittima sicurezza di esistere
per l’Italia.
Sonnino,
sempre più ostinato nella difesa del Patto di Londra, si scontrò in quei
giorni, duramente, con il Presidente del Consiglio Orlando per quanto
riguardava la città di Fiume, che egli era pronto a sacrificare per il
controllo di Zara, Sebenico e di Valona. Non si rese conto e quindi non seppe
approntare una politica efficace ed adeguata alle nuove condizioni che la
guerra aveva generato. A seguito della posizione espressa dal Presidente
Wilson, anche i governi francese e inglese, per quanto riguarda la nostra
politica nel Balcani e per la nostra eccessiva espansione in Anatolia e in
Africa, andavano maturando una forte ostilità nei confronti dell’Italia, al
punto che ambedue i governi chiesero di rinegoziare quanto previsto nel Patto
di Londra. Pure manifestando la disponibilità a trattare, Sonnino mantenne la
sua posizione intransigente su quelli che considerava gli obiettivi più
importanti senza ridurre, di fatto, il divario tra le nostre posizioni e quelle
espresse dal Presidente Wilson. Tra il Presidente Wilson e Sonnino vi fu una
totale inconciliabilità di vedute e fu considerato dal Presidente americano un
ostacolo da rimuovere per costruire “un
nuovo ordine nelle relazioni internazionali”.
Più
che un facilitatore di soluzioni a favore dell’Italia, divenne il suo maggior
ostacolo. Sonnino e il Presidente del Consiglio Orlando presero l’incredibile decisione
di non prendere più parte, per il momento, ai lavori del “Consiglio dei Quattro” ( Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia,
Italia). Tale infausta decisione di abbandonare la Conferenza di pace, ridusse ulteriormente lo
spazio per un accordo, danneggiò il Paese dal punto di vista finanziario, per
quanto riguardava i risarcimenti da parte della Germania ed escluse l’Italia
dalla spartizione delle ex colonie tedesche in Africa e sul fronte interno
accese gli animi della Nazione sul problema di “Fiume italiana”. Infatti,
nonostante la nostra assenza, la Conferenza di pace continuò a svolgere il
proprio lavoro, preparandosi a concluderlo. Quando si ebbe cognizione del danno
prodotto si cercò di correre ai ripari, inviando una Nota di Sonnino agli
ambasciatori inglese e francese ( il 2 maggio 1919 ) e poi presentandosi con Orlando al tavolo delle
trattative, preoccupati di un’eventuale dichiarazione di decadenza del Trattato
di Londra da parte degli Inglesi e Francesi. Tale ritorno al tavolo negoziale
fu dovuto anche al bisogno di “ottenere
urgentemente indispensabili crediti americani”. I rapporti ormai del tutto
compromessi con gli Alleati furono caratterizzati “da ostilità e freddezza” e
quindi non fu possibile alcuna mediazione per l’accoglimento della tesi
italiana. Il 19 giugno 1919 a seguito di un voto sfavorevole della Camera, il
Ministero Orlando rassegnò le sue dimissioni. Come non notare in tutto
l’operato nell’arco temporale della Conferenza di pace un’assoluta imperizia,
un venir meno dei fondamenti dello Statuto stesso su cui si basa il fare
diplomatico che impone sempre: “di negoziare, continuare a negoziare, negoziare
ad oltranza” e non lasciare mai, e poi mai, il Tavolo delle Trattative, perché
facendo ciò viene meno la stessa funzione istituzionale? E’ evidente che, a suo
tempo, la scelta del giovane Sonnino di abbandonare la carriera diplomatica era
quella giusta.
Al
suo posto subentrò il nuovo Ministero guidato da Francesco Saverio Nitti che
nomina suo Ministro degli Esteri Tommaso Tittoni che da subito dovette
affrontare “la grana” del memorandum inglese del 28 giugno, che intima
all’Italia di non compiere atti volti a stabilire la sovranità italiana sulla
città di Fiume e chiede l’immediato ritiro delle truppe italiane dalle coste
dell’Asia minore. La tensione tra l’Italia e i suoi alleati continuerà ad
essere alta.
Nell’estate
del 1919 Sonnino, stanco, spossato, indebolito politicamente, prende atto delle
difficoltà di essere rieletto e decide di non ricandidarsi per la XX
legislatura alla Camera dei deputati. Nominato senatore nel 1920, su proposta
del suo vecchio avversario politico Giolitti, non prese mai la parola al Senato
preferendo dedicare la sua attività alla “casa di Dante” presso Roma. Negli
ultimi anni della sua vita le sue posizioni politiche furono favorevoli a
Mussolini. Egli morì nella sua casa di Roma il 24 novembre 1922 pochi giorni
dopo dell’insediamento del primo ministero Mussolini.
Volutamente
ho tralasciato di affrontare la questione della prigionia dei nostri soldati in
mano austriaca, le loro durissime condizioni di esistenza e di vita e il modo
in cui fu affrontato da Sonnino questo problema. Tale questione, a mio modesto
vedere, merita una trattazione più approfondita e separata da questo contesto,
per la sua gravità, per i suoi tanti eventi luttuosi ed anche perché ad un
secolo da questi fatti non riesco a mantenere il giusto distacco e la fredda
razionalità che deve essere sempre presente ad uno studio storico. Prevale la
passione civile e il tutto ancora mi indigna.

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