mercoledì 24 aprile 2019

Sydney Sonnino, un leader per la guerra II Parte


di Giancarlo Ramaccia
Sydney Sonnino in una immagine dei primi del novecento


II Parte



Il Patto di Londra, firmato con le potenze dell’Intesa, e che rimarrà segreto fino al 1917, fissa compensi territoriali per l’intervento dell’Italia al fianco di Inghilterra, Francia, Russia e la impegna ad entrare in guerra al loro fianco entro un mese dalla data della firma. L’Intesa si impegna a far ottenere all’Italia: il Trentino, il Tirolo cisalpino fino al Brennero (abitato da popolazione tedesca), Trieste, Gorizia, Istria, gran parte della Dalmazia, il protettorato sull’Albania e il possesso della città di Valona, le isole del Dodecaneso, il bacino carbonifero di Adalia in Asia Minore e alcuni possedimenti coloniali tedeschi in Africa (non ben specificati). Come si vede, dall’elenco delle concessioni manca, da parte dell’Italia, una visione strategica d’insieme, sembra un elenco di acquisti di un bottegaio; ci si dimentica della città di Fiume e delle isole del Quarnaro, si insiste sulla Dalmazia senza precisare i confini territoriali, sul protettorato dell’Albania quando all’Italia basta il possesso della città di Valona per controllare la regione, si richiedono colonie tedesche in Africa e si trascurano più concreti interessi nel vicino oriente. E’ evidente che in assenza di un luogo deputato ove discutere le questioni strategiche e di sicurezza per il Paese, si procede a consultazioni di tipo privatistico, che possono inficiare gravemente gli interessi di tutta la nazione. Si trascurano gli aspetti militari della nostra entrata in guerra; essi saranno definiti successivamente da apposite convenzioni tra i diversi Stati Maggiori.
Il 3 maggio 1915, con una nota al governo di Vienna, Sonnino denuncia la Triplice Alleanza.
Il 6 maggio, ricevendo l’ambasciatore a Roma Karl von Macchio, Sonnino giudica insufficienti le nuove offerte austro-ungariche, che non sono molto più consistenti di quelle avanzate precedentemente dall’Austria e ribadisce la denuncia del trattato della Triplice Alleanza, riservandosi di affidare ad un eventuale parere favorevole del governo italiano la riapertura delle trattative. Il giorno successivo Sidney Sonnino informa il Consiglio dei Ministri che l’Italia si è impegnata a entrare in guerra a fianco dell’Intesa entro il 25 o 26 maggio, dando una informativa sommaria e superficiale su quanto negoziato con i Paesi dell’Intesa, e che l’Austria, venuta a conoscenza di tali accordi, ha tentato di riaprire le trattative con l’Italia, e questo, secondo lui, per comprometterla di fronte all’opinione pubblica europea. Dopo un lungo e acceso dibattito nel Consiglio dei Ministri, si approva la scelta dell’intervento (da notare che non si approva l’operato del ministro) e ci si impegna a dimettersi nel caso di un voto contrario alla Camera, che in base all’articolo 5 dello Statuto Albertino deve approvare i trattati che comportano oneri finanziari per lo Stato. A questo punto interviene il re Vittorio Emanuele III che, fin dal 29 aprile, su suggerimento di Sonnino e Salandra si era impegnato personalmente con l’invio di una serie di telegrammi al re d’Inghilterra, allo zar di Russia e al presidente della repubblica francese ad entrare in guerra al loro fianco. Al re non resta che dichiarare pubblicamente di essere pronto ad abdicare in caso la Camera bocci l’intervento a fianco dell’Intesa, aprendo così una gravissima crisi istituzionale.
Giolitti rientra a Roma e propone a Salandra di liberare l’Italia dagli impegni presi con l’Intesa e di votare la ripresa delle trattative con l’Austria. A seguito di ciò, il 12 maggio, 320 deputati e un centinaio di senatori, ossia la maggioranza parlamentare, che ha ricevuto solo informazioni vaghe e reticenti sui termini del “Patto di Londra”, lasciano a casa di Giolitti il proprio biglietto da visita per sottolineare pubblicamente la loro adesione alla linea neutralista.
Salandra si dimette e il 16 maggio, a seguito di violente manifestazioni interventiste di una minoranza organizzata, il re respinge le dimissioni del governo Salandra, dopo che Giolitti aveva affermato pubblicamente di non volere la caduta del ministero e aver rifiutato la proposta avanzata dal re di guidare un nuovo ministero. Il 21 maggio il Parlamento, pur contrario, concede i poteri straordinari al governo in caso di guerra. Il 24 maggio 1915 l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria.
Sonnino, nonostante il successo della scelta dell’intervento a favore dell’Intesa, viene accusato dai nuovi alleati di aver limitato le ostilità soltanto contro l’Austria e di non aver permesso al Consiglio dei ministri di dichiarare immediatamente guerra alla Germania (non dimentichiamo che Sonnino era stato un convinto triplicista).
Dopo la crisi del governo Salandra (12 giugno 1916) e a seguito della “Strafexpedition” del 14 maggio 1916 (offensiva austriaca in Trentino), gli alleati considereranno loro interesse fondamentale la presenza e la permanenza di Sidney Sonnino alla guida del Ministero degli Esteri; pertanto il nuovo governo guidato dal settantottenne Paolo Boselli, liberale di destra, gli confermerà l’incarico.
Solo il 27 agosto 1916 fu fatta pervenire a Berlino la dichiarazione di guerra del governo italiano e solo perché il 16 agosto le truppe italiane entrarono a Gorizia e si ricreò nel Paese un clima di fiducia per la vittoria. Nei duri anni di guerra Sonnino si occupò esclusivamente delle questioni balcaniche e del conseguimento degli obiettivi fissati nel Patto di Londra, senza rendersi minimamente conto del mutare dello scenario politico internazionale e delle condizioni sociali italiane. Questo suo limite lo portò a durissimi scontri contro la nota del primo agosto 1917 di sua santità Benedetto XV che invitava i governi a raggiungere “una pace giusta e duratura”e a non comprendere il ruolo e la partecipazione degli Stati Uniti nella grande guerra, la rivoluzione d’ottobre in Russia, il mutamento profondo che avvenne in Italia con la sconfitta di Caporetto.
Con l’affidamento a Vittorio Emanuele Orlando della guida del nuovo governo (25 ottobre 1917), Sonnino fu riconfermato nell’incarico, ma ormai era un uomo incapace di produrre una fattiva politica estera. Spaventato dagli eventi che avevano modificato il quadro internazionale e temendo che essi potessero cambiare il complesso degli accordi sottoscritti, divenne l’intransigente rappresentante dell’applicazione “automatica” del Patto di Londra. Tale difesa si scontrava con la politica estera propugnata dal Presidente Thomas Woodrow Wilson che intendeva far valere nuovi principi e non riconosceva alcun valore vincolante al Patto di Londra. Il Presedente Wilson e la sua “new diplomacy” prevedeva la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria, nostro nemico ereditario, a condizione che venisse concessa un’ampia autonomia ai popoli che ne facevano parte e riconosceva all’Italia il diritto a ridefinire i confini “lungo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”. Sonnino contestava questa impostazione perché contraddiceva i fini di guerra dell’Italia. Egli era ossessionato dalla questione adriatica che per lui significava la legittima sicurezza di esistere per l’Italia.
Sonnino, sempre più ostinato nella difesa del Patto di Londra, si scontrò in quei giorni, duramente, con il Presidente del Consiglio Orlando per quanto riguardava la città di Fiume, che egli era pronto a sacrificare per il controllo di Zara, Sebenico e di Valona. Non si rese conto e quindi non seppe approntare una politica efficace ed adeguata alle nuove condizioni che la guerra aveva generato. A seguito della posizione espressa dal Presidente Wilson, anche i governi francese e inglese, per quanto riguarda la nostra politica nel Balcani e per la nostra eccessiva espansione in Anatolia e in Africa, andavano maturando una forte ostilità nei confronti dell’Italia, al punto che ambedue i governi chiesero di rinegoziare quanto previsto nel Patto di Londra. Pure manifestando la disponibilità a trattare, Sonnino mantenne la sua posizione intransigente su quelli che considerava gli obiettivi più importanti senza ridurre, di fatto, il divario tra le nostre posizioni e quelle espresse dal Presidente Wilson. Tra il Presidente Wilson e Sonnino vi fu una totale inconciliabilità di vedute e fu considerato dal Presidente americano un ostacolo da rimuovere per costruire “un nuovo ordine nelle relazioni internazionali”.
Più che un facilitatore di soluzioni a favore dell’Italia, divenne il suo maggior ostacolo. Sonnino e il Presidente del Consiglio Orlando presero l’incredibile decisione di non prendere più parte, per il momento, ai lavori del “Consiglio dei Quattro” ( Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia). Tale infausta decisione di abbandonare la  Conferenza di pace, ridusse ulteriormente lo spazio per un accordo, danneggiò il Paese dal punto di vista finanziario, per quanto riguardava i risarcimenti da parte della Germania ed escluse l’Italia dalla spartizione delle ex colonie tedesche in Africa e sul fronte interno accese gli animi della Nazione sul problema di “Fiume italiana”. Infatti, nonostante la nostra assenza, la Conferenza di pace continuò a svolgere il proprio lavoro, preparandosi a concluderlo. Quando si ebbe cognizione del danno prodotto si cercò di correre ai ripari, inviando una Nota di Sonnino agli ambasciatori inglese e francese ( il 2 maggio 1919 ) e poi  presentandosi con Orlando al tavolo delle trattative, preoccupati di un’eventuale dichiarazione di decadenza del Trattato di Londra da parte degli Inglesi e Francesi. Tale ritorno al tavolo negoziale fu dovuto anche al bisogno di “ottenere urgentemente indispensabili crediti americani”. I rapporti ormai del tutto compromessi con gli Alleati furono caratterizzati “da ostilità e freddezza” e quindi non fu possibile alcuna mediazione per l’accoglimento della tesi italiana. Il 19 giugno 1919 a seguito di un voto sfavorevole della Camera, il Ministero Orlando rassegnò le sue dimissioni. Come non notare in tutto l’operato nell’arco temporale della Conferenza di pace un’assoluta imperizia, un venir meno dei fondamenti dello Statuto stesso su cui si basa il fare diplomatico che impone sempre: “di negoziare, continuare a negoziare, negoziare ad oltranza” e non lasciare mai, e poi mai, il Tavolo delle Trattative, perché facendo ciò viene meno la stessa funzione istituzionale? E’ evidente che, a suo tempo, la scelta del giovane Sonnino di abbandonare la carriera diplomatica era quella giusta.
Al suo posto subentrò il nuovo Ministero guidato da Francesco Saverio Nitti che nomina suo Ministro degli Esteri Tommaso Tittoni che da subito dovette affrontare “la grana” del memorandum inglese del 28 giugno, che intima all’Italia di non compiere atti volti a stabilire la sovranità italiana sulla città di Fiume e chiede l’immediato ritiro delle truppe italiane dalle coste dell’Asia minore. La tensione tra l’Italia e i suoi alleati continuerà ad essere alta.
Nell’estate del 1919 Sonnino, stanco, spossato, indebolito politicamente, prende atto delle difficoltà di essere rieletto e decide di non ricandidarsi per la XX legislatura alla Camera dei deputati. Nominato senatore nel 1920, su proposta del suo vecchio avversario politico Giolitti, non prese mai la parola al Senato preferendo dedicare la sua attività alla “casa di Dante” presso Roma. Negli ultimi anni della sua vita le sue posizioni politiche furono favorevoli a Mussolini. Egli morì nella sua casa di Roma il 24 novembre 1922 pochi giorni dopo dell’insediamento del primo ministero Mussolini.
Volutamente ho tralasciato di affrontare la questione della prigionia dei nostri soldati in mano austriaca, le loro durissime condizioni di esistenza e di vita e il modo in cui fu affrontato da Sonnino questo problema. Tale questione, a mio modesto vedere, merita una trattazione più approfondita e separata da questo contesto, per la sua gravità, per i suoi tanti eventi luttuosi ed anche perché ad un secolo da questi fatti non riesco a mantenere il giusto distacco e la fredda razionalità che deve essere sempre presente ad uno studio storico. Prevale la passione civile e il tutto ancora mi indigna.
 

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