lunedì 25 maggio 2020

In ricordo dell'Alfiere Michele Centofanti


Non dimentichiamo i nostri Eroi. Noi facciamo parte di una generazione che non ha vissuto direttamente gli orrori della guerra. È vero, abbiamo dovuto lottare contro continue crisi economiche, ma tutto sommato, siamo stati più fortunati dei nostri genitori e dei nostri nonni. Il minimo che possiamo fare dunque, è quello di ricordare le persone che sono morte per la nostra Patria. Ricordarsi di loro ci aiuta ad essere più riconoscenti verso chi ha combattuto per un futuro migliore, quel futuro che loro stessi non hanno mai visto, né potuto godere. Tra questi Eroi, troviamo Michele Centofanti di Introdacqua, è stato Alfiere degli Arditi Alpini e ha combattuto nelle “Fiamme Verdi”, nella prima guerra mondiale. L’Ufficiale Alfiere Centofanti, fu colpito da arma da fuoco il 4 aprile 1916, nell’audace azione condotta contro la quota “S. Giovanni”, in zona Monte Grappa. Per capire chi fosse è sufficiente leggere la lettera, che riporto qui di seguito, che scrisse alla sorella poco tempo prima di immolarsi. Fa riflettere la nobiltà d’animo con la quale si esprime, tipica dei valori del tempo. Valori che vorremmo si perpetuassero, per sempre.

Ing. Roberto Centofanti – Federazione di Torino

Dal fronte 15 – 2 – 1916
Sorella carissima,
Nuove lotte ci attendono. Il mio umile servizio alla Patria ricomincia, mi avvicino di nuovo nei luoghi dove tuona il cannone, crepita la fucileria. Coraggio e avanti: Viva l’Italia! Viva il suo esercito.
Sino a quando una stilla di sangue scorrerà nelle nostre vene noi sapremo sempre impugnare un’arma e slanciarci contro il vile nemico. Vittoria dovrà essere la nostra, vittoria completa, santa ideale.
E tu, o sorella, tu che non puoi col braccio difendere la nostra bella Italia, tu che non puoi dare la vita per essa, tu dovrai renderti utile alla Patria in modo diverso ...e sai come? Così, sii forte, sii orgogliosa d’ avere un fratello al fronte, e scrivi a lui lettere piene d’ entusiasmo; digli che tu preghi per lui, digli che combatta da forte, che vinca, che torni vittorioso. Non piangere per esso, ma ridi di gioia quando ti ricorderai che lui pugna per la Patria.
È così che deve mostrarsi la sorella d’ un volontario, d’un giovane che ama la giustizia, che ama la sua Italia. E tu agendo in questo modo recherai al mio cuore tanta gioia, e nello stesso tempo ti rendi utile all’ Italia perché invii il sorriso di contento al soldato che combatte, il quale sentirà meno le fatiche della guerra. Sì, sorella, scrivimi che tu non piangi ma che sei contenta ch’io sono al fronte. Però ricordati che dovrai scrivermelo solo quando ciò lo senti, e non scrivermelo per farmi contento. Pensa alle condizioni dell’Italia, ricorda la tirannia dell’Austria sulla divisa Italia, lo sprezzo con cui i nostri fratelli vennero trattati dal vile nemico, e quando tu avrai compreso tutto ciò che noi abbiamo sofferto sotto il giogo Austriaco, quando le parole, strozzate dal capestro, del giovane Oberdan, scenderanno nel tuo cuore come musica divina, allora, solo allora, tu potrai dirmi: “son contenta che sei in guerra, combatti e vinci”.
E alle tue parole il mio viso si coronerà di gioia, il mio coraggio si raddoppierà, e con la tua angelica visione in mente, saprò ancor di più pugnare e vincere.  E mentre io sulle belle terre di redenzione ornate di sangue combatterò, tu pregherai perché sia vincitore e torni a te.
Coraggio e speranza, grida con me: Viva l’Italia – Viva l’Esercito.
Baci affett.mo fratello
Michele 
Saluti ad Elisa ed amiche.


mercoledì 20 maggio 2020

Le celebrazioni del valore. Il centenario del Milite Ignoto




Un secolo fa, l’Altare della Patria di Roma, l’imponente monumento eretto in Piazza Venezia in onore di Vittorio Emanuele II, detto anche il Vittoriano, divenne protagonista della prima celebrazione del ricordo del Milite Ignoto. Infatti, il 4 novembre 1920 era prevista la Festa delle Bandiere, il raduno di tutti gli stendardi dei vari reparti militari che avevano combattuto durante la Grande Guerra da poco conclusasi. Era un anno difficile, quel 1920, perché la fatiche della guerra avevano prostrato tutti, ma la conclusione del terribile conflitto non aveva portato un immediato benessere. C’erano stati licenziamenti e fame, malattie e proteste. La “vittoria mutilata” non aveva rasserenato gli animi che, come dopo la non assegnazione del Veneto alla conclusione della Seconda Guerra d’Indipendenza, aveva portato sconforto negli ex combattenti, alcuni suicidi, molta amarezza e il senso di non appartenenza ad un Paese che li viveva come un peso.
La prima bandiera ad arrivare a Roma era stata quella dei Granatieri di Sardegna, arrivo concomitante al rientro nella caserma della capitale del reparto lì dislocato. La partenza dalle varie località delle varie bandiere dirette a Roma, aveva dato spazio ad ulteriori disordini che si era cercato di sedare, ed era stata attuata una campagna apposita per sottolineare la valenza patriottico-militare della Festa prevista in occasione della commemorazione della vittoria militare di soli due anni prima. Le bandiere che raggiunsero il Vittoriano in corteo il 4 novembre 1920 furono ben 335, sfilando davanti ai reali che si inchinarono al loro passaggio. Lo spettacolo era superbo, con molta folla e lancio di fiori. Oltre al Re e al Duca d’Aosta, presenziò anche il generale Armando Diaz che venne portato in trionfo dagli ex-combattenti, mentre la commozione generale raccolse gli animi in un legame nazional-patriottico indimenticabile. Soprattutto la menzione dei reparti assenti, dei caduti, il ricordo della sofferenza di molti per il bene di tutti, raccolse intorno alla manifestazione il consenso che la politica necessitava in quel momento così difficile. L’Italia aveva ancora bisogno di senso di unione, di senso di appartenenza di popolo e la manifestazione era riuscita a calmare per un momento gli animi, specialmente nei confronti della Casa Reale. Intorno a quell’evento, si cominciò a ritenere che anche l’Italia avrebbe dovuto avere il proprio Milite Ignoto, come già avevano organizzato la Francia e la Gran Bretagna proprio in quell’anno. Serviva un soldato che rappresentasse tutti quanti mancavano, quelli senza una tomba e morti senza una preghiera; coloro dei quali si era persa traccia per le bombe, l’avanzata o la rotta, perché il tempo aveva cancellato la pietosa deposizione di una croce di legno o di una pietra da parte dei commilitoni. La questione non era, ancora una volta, soltanto sentimentale, ma politica. Il disegno di legge per la celebrazione del Milite Ignoto era arrivato al governo, e continuò il suo iter malgrado il cambio di nomi nelle cariche pubbliche e malgrado i dibattiti, nelle aule e sui giornali. Alla fine, con discorsi toccanti, vere e proprie brecce nelle appartenenze trasversali, si arrivò al voto unanime e all’approvazione della costituzione dell’Ufficio Onoranze al Soldato Ignoto, presso il Ministero della Guerra. Una circolare del 30 settembre 1921, stabiliva che il giorno 4 novembre 1921 si sarebbe data degna sepoltura a Roma, presso l’Altare della Patria, alla salma di un soldato ignoto, cioè di cui non fosse possibile in alcun modo risalire alle generalità. Egli sarebbe stato il rappresentante di migliaia di uomini che avevano dato la vita per la nazione durante la prima guerra mondiale, combattendo per l’Italia dal 1915 al 1918. Ancora una volta le bandiere sarebbero state tutte presenti.
La scelta della salma, su proposta del generale Diaz, non sarebbe stata fatta da un comandante o da un funzionario, ma da una madre che non avesse potuto sapere dove fosse sepolto il proprio figlio. La componente emotiva era forte già sulla carta e lo divenne sempre più sul piano pratico, perché quello spirito di nazione si stava materializzando ancora, come nei mesi di guerra. E diventava importante il riconoscimento del dolore di migliaia di donne, che non solo dovevano piangere la perdita dei propri cari, mariti figli padri fratelli fidanzati, ma dovevano farsi carico delle conseguenze belliche, così come avevano fatto con immani sacrifici nei mesi, fino a quel 1921 in cui ancora non si vedeva la fine delle sofferenze.
Venne nominata una Commissione deputata ad andare a cercare 11 salme, come richiesto dalla circolare n. 71. I suoi membri avevano giurato che avrebbero taciuto per sempre sui luoghi di ricerca dei caduti, così da garantire l’assoluto anonimato del milite. Il pellegrinaggio iniziò dal Trentino e proseguì per alcuni giorni dell’ottobre 1921, passando per il Monte Ortigara, il Monte Grappa, il Montello, non dimenticando un marinaio, simbolo del sacrificio della Marina Militare. Si arrivò verso Gorizia, sul San Michele, il San Marco e il Carso, nomi che si erano scolpiti nella mente di ogni italiano, soprattutto dal 1917 alla vittoria del 4 novembre 1918. Undici salme che raggiunsero, nelle bare appositamente predisposte, nella Basilica di Aquileia. Lì, nel giardino del simbolo della cultura italica, giacevano i morti delle prime ondate belliche; lì aveva sostato in meditazione D’Annunzio; lì erano entrati, vincitori momentanei, gli austriaci; lì era subito stato sistemato il camposanto una volta riconquistato agli italici colori. Aquileia era il simbolo della sofferenza e di ciò che resta, dopo tutto, malgrado tutto.
L’imponenza della Basilica, dai meravigliosi affreschi romani, dal silenzio che cala dalle vette che la circondano, vegliava sul riposo dei resti della battaglia. Lì una madre avrebbe scelto il Milite Ignoto da inviare a Roma e lì sarebbero stati seppelliti gli altri, monumento eterno di tutti gli Italiani. Il giorno scelto per il riconoscimento era il 28 ottobre, in modo da poter fare arrivare, in treno, nella capitale, la salma del Milite Ignoto per il 4 novembre. La donna che riconobbe idealmente suo figlio tra le bare fu Maria Maddalena Bergamas, madre di Antonio, figlio unico, e la colonna sonora che accompagnò quel momento carico di commozione per tutti i presenti, centinaia di persone, fu un testo scritto da Giovanni Gaeta e noto come “La leggenda del Piave”, eseguito dalla fanfara della Brigata Sassari. Il Milite Ignoto e “La leggenda del Piave” diventarono emblema nazionale e sono vessillo ancora oggi non delle gesta di guerra, ma dell’amore materno, dell’amore filiale, dell’unità delle persone intorno alla vita vera e alla necessità di tutelarla e difenderla, bene prezioso e fragile allo stesso tempo. Una lezione che si rinnova ancora oggi, sotto varie forme, e un simbolo attorno al quale unirci per sentirci parte di un tutto al quale stiamo a cuore. Cent’anni dopo, nessuno si vergogna più delle bandiere esposte sui balconi e di essere italiano. Ignoto, nel sacrificio e nel dovere, nella dedizione e nella solidarietà. Combattente, anche se con altre divise, e forse nessuna.


venerdì 15 maggio 2020

Progetto Capire la Grande Guerra. Volume III






Massimo Coltrinari
Riflessioni sulla Grande Guerra
La  Vittoria ed i suoi artiefici
I Generali Italiani nella Grande Guerra 
Roma Casa Editrice Nuova Cultura, 2020, Vol. III

Il Volume riporta a compendio dei primi due dedicati al commento ed alle riflessioni sulle operazioni della Grande Guerra le biografie ragionate dei due Capi di Stato Maggiiore, Luigi cadorna ed Armando Diaz. A seguire gli incarichi svolti durante la guerra dai Generali Italiani a livello di Armata, Corpo d'Armata, compresi il Comando Supremo, le Unità operanti ed i Corpi di Spedizione




il volume è acquistabile in tutte le librerie; 
oppre presso la casa editrice  (ordini@nuovacultra.it)
 o presso l'Istituto del nastro Azzurro
 Roma Piazza Galeno 1
 (segreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org)

info e contatti: editoria.cesvam@istitutonastroazzurro.org
(www.cesva.org)

domenica 10 maggio 2020

La Tattica nella Grande Guerra 8

I carri armati furono impiegati prematuramente, mandati allo sbaraglio prima che i loro equipaggi avessero ultimato l'addestramento e prima che gli stati maggiori avessero avuto il tempo di riflettere sul modo migliore di impiegarli e di sfruttarne la combinazione di potenza di fuoco, di movimento e di protezione che essi racchiudevano in un solo strumento. Che il carro armato fosse l'antidoto giusto al binomio mitragliatrice-reticolato e, perciò il mezzo idoneo a superare la guerra di posizione che aveva ridotto la strategia bellica una semplice tecnica di logoramento (76), sarà compreso a Cambrai il 20 novembre 1917 e, soprattutto, l’8 agosto del 1918 quando gli inglesi li impiegarono a massa contro la 2^ armata tedesca ad est di Amiens; ma, in entrambe le circostanze, faranno egualmente difetto la capacità e la preparazione necessaria a comprendere che i carri non erano solo mezzi di rottura, ma anche e soprattutto di sfruttamento del successo.
Quando verso la fine del 1917 i tedeschi, dopo circa 3 anni, decisero di passare nuovamente all'azione offensiva sulla fronte occidentale, avevano pronta una nuova tattica che esperimentarono prima a Riga e poi a Caporetto. Con la tattica dell'attacco contro i punti deboli che essi adottarono, intesero: restituire alla fanteria il compito della conquista degli obiettivi; conferire alla fase di penetrazione carattere di potenza, continuità e flessibilità, da essi stessi sottratto con la tattica di intermittenza; rimettere in auge i principi della sorpresa, dell'inganno e dell'economia materiale delle forze per troppo tempo disattesi. La nuova tattica, alla quale ben presto si uniformarono gli altri eserciti e che costituirà la base delle dottrine offensive tra la prima e la seconda guerra mondiale, poggiò sui seguenti criteri fondamentali: preparazione dell'artiglieria non superiore alle 3-5 ore; smascheramento dello sforzo principale mediante il ricorso a sforzi finti di potenza iniziale non inferiore a quella dello sforzo principale; continui spostamenti di truppe nelle retrovie per disorientare il difensore; riduzione e, se possibile, annullamento delle soste attacco durante, mediante stretta cooperazione fanteria-artiglieria che assicuri, finché è possibile, l'appoggio mobile di fuoco, e mediante lo stretto coordinamento del movimento dei reparti fucilieri con il fuoco dei nuclei mitraglieri e lanciagranate, delle bombarde e dei cannoni di accompagnamento; sostituzione nelle formazioni della fanteria della riga con la fila come la più idonea al movimento e la meno vulnerabile; riduzione della densità della catena. In Piccardia nel marzo la preparazione di artiglieria durò 5 ore, in Fiandra nell'aprile 3 ore, sull’Aisne nel maggio 2 ore e 40 minuti, nello Champagne in luglio 5 ore 20 minuti sulla Marna 4 ore 40 minuti; a Caporetto nell'ottobre del 1917 ed a Banteux e Ventidue nel novembre i tedeschi avevano già attaccato dopo una preparazione brevissima, ma intensa, di granate a gas, fumogene ed esplosive; gli austro-ungarici nel giugno del 1918 aprirono il fuoco alle 3 del giorno 15, preceduti di mezz'ora dalla contropreparazione italiana, e mossero all'attacco 4 ore dopo. Prendere posizione durante la notte, non logorarsi contro i punti forti, sfruttare le occasioni favorevoli, insinuarsi nelle zone di maggiore facilitazione e di minore resistenza, non gettarsi in massa contro la fronte ma sondare i punti deboli, avviluppare e non battere contro: questi i canoni della nuova tattica e della nuova tecnica che modificarono sostanzialmente la fisionomia fino ad allora avuta dall'azione offensiva, che acquistò così un certo respiro. L'artiglieria smantella i punti forti, la fanteria manovra per farli cadere; le 2 armi riassumono i ruoli tradizionali. Ma il problema dell'azione offensiva non su risolto, solo reso meno difficile e costoso. Anche con la tattica e la tecnica precedenti, sia pure con costi insostenibili, si era riusciti talvolta a rompere le sistemazioni difensive ed a penetrarvi in profondità, ma erano mancati i mezzi idonei al dilagamento. E’ vero che spesso il dilagamento non c'era stato o per indisponibilità di riserve, o per la loro dislocazione eccentrica, o per colpa dei generali, ma la verità di fondo era stata l'idoneità del mezzo, perché la cavalleria, la cui iniziale insufficienza di capacità operativa era venuta vieppiù aumentando in proporzione geometrica con il progressivo accrescimento della robustezza delle difese, non era stata, non era e non sarà più in grado di esprimere la potenza necessaria a sfondare le barriere difensive che incontrava in profondità, e neppure a prevenirvi il nemico che non senza ragione le predisponeva così lontane.  La forza della tradizione, lo spirito di sacrificio, il coraggio ed il valore non erano più sufficienti a supplire la debolezza costituzionale di mezzi inidonei vulnerabili. La difesa ebbe sempre modo e tempo di correre alla parata anche quando l'attacco ruppe il muro e riuscì a sboccare in campo aperto, dove giunse però quasi sempre esausto e logoro, privo cioè della forza psicologica e materiale per spingersi con slancio in profondità. La cavalleria, che guerra durante aveva ricevuto nuovi mezzi di fuoco, non fu egualmente in grado di svolgere il suo compito principale e dové appiedare per combattere con procedimenti infanteristici nell'ambito delle azioni tattiche e delle divisioni e dei corpi d'armata.
 (Da Filippo Stefani Storia della Dottrina e degli Ordinamenti dell'Esercito Italiano). continua con post in data 10 giugno 2020