Blog dedicato alla prima Guerra Mondiale ed alle sue conseguenza in Italia e in Europa. E' espressione del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro come spazio per i temi riguardanti la grande guerra e le sue conseguenze (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
sabato 30 maggio 2020
lunedì 25 maggio 2020
In ricordo dell'Alfiere Michele Centofanti
Non dimentichiamo i nostri Eroi.
Noi facciamo parte di una generazione che non ha vissuto direttamente gli
orrori della guerra. È vero, abbiamo dovuto lottare contro continue crisi
economiche, ma tutto sommato, siamo stati più fortunati dei nostri genitori e
dei nostri nonni. Il minimo che possiamo fare dunque, è quello di ricordare le
persone che sono morte per la nostra Patria. Ricordarsi di loro ci aiuta ad
essere più riconoscenti verso chi ha combattuto per un futuro migliore, quel
futuro che loro stessi non hanno mai visto, né potuto godere. Tra questi Eroi,
troviamo Michele Centofanti di Introdacqua, è stato Alfiere degli Arditi Alpini
e ha combattuto nelle “Fiamme Verdi”, nella prima guerra mondiale. L’Ufficiale
Alfiere Centofanti, fu colpito da arma da fuoco il 4 aprile 1916, nell’audace azione
condotta contro la quota “S. Giovanni”, in zona Monte Grappa. Per capire chi
fosse è sufficiente leggere la lettera, che riporto qui di seguito, che scrisse
alla sorella poco tempo prima di immolarsi. Fa riflettere la nobiltà d’animo
con la quale si esprime, tipica dei valori del tempo. Valori che vorremmo si
perpetuassero, per sempre.
Ing. Roberto
Centofanti – Federazione di Torino
Dal fronte 15 – 2 – 1916
Sorella carissima,
Nuove
lotte ci attendono. Il mio umile servizio alla Patria ricomincia, mi avvicino
di nuovo nei luoghi dove tuona il cannone, crepita la fucileria. Coraggio e avanti:
Viva l’Italia! Viva il suo esercito.
Sino
a quando una stilla di sangue scorrerà nelle nostre vene noi sapremo sempre
impugnare un’arma e slanciarci contro il vile nemico. Vittoria dovrà essere la
nostra, vittoria completa, santa ideale.
E
tu, o sorella, tu che non puoi col braccio difendere la nostra bella Italia, tu
che non puoi dare la vita per essa, tu dovrai renderti utile alla Patria in
modo diverso ...e sai come? Così, sii forte, sii orgogliosa d’ avere un
fratello al fronte, e scrivi a lui lettere piene d’ entusiasmo; digli che tu
preghi per lui, digli che combatta da forte, che vinca, che torni vittorioso.
Non piangere per esso, ma ridi di gioia quando ti ricorderai che lui pugna per
la Patria.
È
così che deve mostrarsi la sorella d’ un volontario, d’un giovane che ama la
giustizia, che ama la sua Italia. E tu agendo in questo modo recherai al mio
cuore tanta gioia, e nello stesso tempo ti rendi utile all’ Italia perché invii
il sorriso di contento al soldato che combatte, il quale sentirà meno le
fatiche della guerra. Sì, sorella, scrivimi che tu non piangi ma che sei
contenta ch’io sono al fronte. Però ricordati che dovrai scrivermelo solo
quando ciò lo senti, e non scrivermelo per farmi contento. Pensa alle
condizioni dell’Italia, ricorda la tirannia dell’Austria sulla divisa Italia,
lo sprezzo con cui i nostri fratelli vennero trattati dal vile nemico, e quando
tu avrai compreso tutto ciò che noi abbiamo sofferto sotto il giogo Austriaco,
quando le parole, strozzate dal capestro, del giovane Oberdan, scenderanno nel
tuo cuore come musica divina, allora, solo allora, tu potrai dirmi: “son
contenta che sei in guerra, combatti e vinci”.
E
alle tue parole il mio viso si coronerà di gioia, il mio coraggio si
raddoppierà, e con la tua angelica visione in mente, saprò ancor di più pugnare
e vincere. E mentre io sulle belle terre di redenzione ornate di sangue
combatterò, tu pregherai perché sia vincitore e torni a te.
Coraggio e speranza, grida con me:
Viva l’Italia – Viva l’Esercito.
Baci affett.mo fratello
Michele
Saluti ad Elisa ed amiche.
mercoledì 20 maggio 2020
Le celebrazioni del valore. Il centenario del Milite Ignoto
Un
secolo fa, l’Altare della Patria di Roma, l’imponente monumento eretto in
Piazza Venezia in onore di Vittorio Emanuele II, detto anche il Vittoriano,
divenne protagonista della prima celebrazione del ricordo del Milite Ignoto.
Infatti, il 4 novembre 1920 era prevista la Festa delle Bandiere, il raduno di
tutti gli stendardi dei vari reparti militari che avevano combattuto durante la
Grande Guerra da poco conclusasi. Era un anno difficile, quel 1920, perché la
fatiche della guerra avevano prostrato tutti, ma la conclusione del terribile
conflitto non aveva portato un immediato benessere. C’erano stati licenziamenti
e fame, malattie e proteste. La “vittoria mutilata” non aveva rasserenato gli
animi che, come dopo la non assegnazione del Veneto alla conclusione della
Seconda Guerra d’Indipendenza, aveva portato sconforto negli ex combattenti,
alcuni suicidi, molta amarezza e il senso di non appartenenza ad un Paese che
li viveva come un peso.
La
prima bandiera ad arrivare a Roma era stata quella dei Granatieri di Sardegna,
arrivo concomitante al rientro nella caserma della capitale del reparto lì
dislocato. La partenza dalle varie località delle varie bandiere dirette a
Roma, aveva dato spazio ad ulteriori disordini che si era cercato di sedare, ed
era stata attuata una campagna apposita per sottolineare la valenza
patriottico-militare della Festa prevista in occasione della commemorazione
della vittoria militare di soli due anni prima. Le bandiere che raggiunsero il
Vittoriano in corteo il 4 novembre 1920 furono ben 335, sfilando davanti ai
reali che si inchinarono al loro passaggio. Lo spettacolo era superbo, con
molta folla e lancio di fiori. Oltre al Re e al Duca d’Aosta, presenziò anche il
generale Armando Diaz che venne portato in trionfo dagli ex-combattenti, mentre
la commozione generale raccolse gli animi in un legame nazional-patriottico
indimenticabile. Soprattutto la menzione dei reparti assenti, dei caduti, il
ricordo della sofferenza di molti per il bene di tutti, raccolse intorno alla
manifestazione il consenso che la politica necessitava in quel momento così
difficile. L’Italia aveva ancora bisogno di senso di unione, di senso di
appartenenza di popolo e la manifestazione era riuscita a calmare per un
momento gli animi, specialmente nei confronti della Casa Reale. Intorno a
quell’evento, si cominciò a ritenere che anche l’Italia avrebbe dovuto avere il
proprio Milite Ignoto, come già avevano organizzato la Francia e la Gran Bretagna
proprio in quell’anno. Serviva un soldato che rappresentasse tutti quanti
mancavano, quelli senza una tomba e morti senza una preghiera; coloro dei quali
si era persa traccia per le bombe, l’avanzata o la rotta, perché il tempo aveva
cancellato la pietosa deposizione di una croce di legno o di una pietra da
parte dei commilitoni. La questione non era, ancora una volta, soltanto
sentimentale, ma politica. Il disegno di legge per la celebrazione del Milite
Ignoto era arrivato al governo, e continuò il suo iter malgrado il cambio di
nomi nelle cariche pubbliche e malgrado i dibattiti, nelle aule e sui giornali.
Alla fine, con discorsi toccanti, vere e proprie brecce nelle appartenenze
trasversali, si arrivò al voto unanime e all’approvazione della costituzione
dell’Ufficio Onoranze al Soldato Ignoto, presso il Ministero della Guerra. Una
circolare del 30 settembre 1921, stabiliva che il giorno 4 novembre 1921 si
sarebbe data degna sepoltura a Roma, presso l’Altare della Patria, alla salma
di un soldato ignoto, cioè di cui non fosse possibile in alcun modo risalire
alle generalità. Egli sarebbe stato il rappresentante di migliaia di uomini che
avevano dato la vita per la nazione durante la prima guerra mondiale,
combattendo per l’Italia dal 1915 al 1918. Ancora una volta le bandiere
sarebbero state tutte presenti.
La
scelta della salma, su proposta del generale Diaz, non sarebbe stata fatta da
un comandante o da un funzionario, ma da una madre che non avesse potuto sapere
dove fosse sepolto il proprio figlio. La componente emotiva era forte già sulla
carta e lo divenne sempre più sul piano pratico, perché quello spirito di
nazione si stava materializzando ancora, come nei mesi di guerra. E diventava
importante il riconoscimento del dolore di migliaia di donne, che non solo
dovevano piangere la perdita dei propri cari, mariti figli padri fratelli
fidanzati, ma dovevano farsi carico delle conseguenze belliche, così come
avevano fatto con immani sacrifici nei mesi, fino a quel 1921 in cui ancora non
si vedeva la fine delle sofferenze.
Venne
nominata una Commissione deputata ad andare a cercare 11 salme, come richiesto
dalla circolare n. 71. I suoi membri avevano giurato che avrebbero taciuto per
sempre sui luoghi di ricerca dei caduti, così da garantire l’assoluto anonimato
del milite. Il pellegrinaggio iniziò dal Trentino e proseguì per alcuni giorni
dell’ottobre 1921, passando per il Monte Ortigara, il Monte Grappa, il
Montello, non dimenticando un marinaio, simbolo del sacrificio della Marina
Militare. Si arrivò verso Gorizia, sul San Michele, il San Marco e il Carso,
nomi che si erano scolpiti nella mente di ogni italiano, soprattutto dal 1917
alla vittoria del 4 novembre 1918. Undici salme che raggiunsero, nelle bare appositamente
predisposte, nella Basilica di Aquileia. Lì, nel giardino del simbolo della
cultura italica, giacevano i morti delle prime ondate belliche; lì aveva
sostato in meditazione D’Annunzio; lì erano entrati, vincitori momentanei, gli
austriaci; lì era subito stato sistemato il camposanto una volta riconquistato
agli italici colori. Aquileia era il simbolo della sofferenza e di ciò che
resta, dopo tutto, malgrado tutto.
L’imponenza
della Basilica, dai meravigliosi affreschi romani, dal silenzio che cala dalle
vette che la circondano, vegliava sul riposo dei resti della battaglia. Lì una
madre avrebbe scelto il Milite Ignoto da inviare a Roma e lì sarebbero stati
seppelliti gli altri, monumento eterno di tutti gli Italiani. Il giorno scelto
per il riconoscimento era il 28 ottobre, in modo da poter fare arrivare, in
treno, nella capitale, la salma del Milite Ignoto per il 4 novembre. La donna
che riconobbe idealmente suo figlio tra le bare fu Maria Maddalena Bergamas,
madre di Antonio, figlio unico, e la colonna sonora che accompagnò quel momento
carico di commozione per tutti i presenti, centinaia di persone, fu un testo
scritto da Giovanni Gaeta e noto come “La leggenda del Piave”, eseguito dalla
fanfara della Brigata Sassari. Il Milite Ignoto e “La leggenda del Piave”
diventarono emblema nazionale e sono vessillo ancora oggi non delle gesta di
guerra, ma dell’amore materno, dell’amore filiale, dell’unità delle persone
intorno alla vita vera e alla necessità di tutelarla e difenderla, bene
prezioso e fragile allo stesso tempo. Una lezione che si rinnova ancora oggi,
sotto varie forme, e un simbolo attorno al quale unirci per sentirci parte di
un tutto al quale stiamo a cuore. Cent’anni dopo, nessuno si vergogna più delle
bandiere esposte sui balconi e di essere italiano. Ignoto, nel sacrificio e nel
dovere, nella dedizione e nella solidarietà. Combattente, anche se con altre
divise, e forse nessuna.
venerdì 15 maggio 2020
Progetto Capire la Grande Guerra. Volume III
Massimo Coltrinari
Riflessioni sulla Grande Guerra
La Vittoria ed i suoi artiefici
I Generali Italiani nella Grande Guerra
Roma Casa Editrice Nuova Cultura, 2020, Vol. III
Il Volume riporta a compendio dei primi due dedicati al commento ed alle riflessioni sulle operazioni della Grande Guerra le biografie ragionate dei due Capi di Stato Maggiiore, Luigi cadorna ed Armando Diaz. A seguire gli incarichi svolti durante la guerra dai Generali Italiani a livello di Armata, Corpo d'Armata, compresi il Comando Supremo, le Unità operanti ed i Corpi di Spedizione
il volume è acquistabile in tutte le librerie;
oppre presso la casa editrice (ordini@nuovacultra.it)
o presso l'Istituto del nastro Azzurro
Roma Piazza Galeno 1
(segreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org)
info e contatti: editoria.cesvam@istitutonastroazzurro.org
(www.cesva.org)
domenica 10 maggio 2020
La Tattica nella Grande Guerra 8
I carri armati furono impiegati
prematuramente, mandati allo sbaraglio prima che i loro equipaggi avessero
ultimato l'addestramento e prima che gli stati maggiori avessero avuto il tempo
di riflettere sul modo migliore di impiegarli e di sfruttarne la combinazione
di potenza di fuoco, di movimento e di protezione che essi racchiudevano in un
solo strumento. Che il carro armato fosse l'antidoto giusto al binomio
mitragliatrice-reticolato e, perciò il mezzo idoneo a superare la guerra di
posizione che aveva ridotto la strategia
bellica una semplice tecnica di logoramento (76), sarà compreso a Cambrai
il 20 novembre 1917 e, soprattutto, l’8 agosto del 1918 quando gli inglesi li
impiegarono a massa contro la 2^ armata tedesca ad est di Amiens; ma, in
entrambe le circostanze, faranno egualmente difetto la capacità e la
preparazione necessaria a comprendere che i carri non erano solo mezzi di
rottura, ma anche e soprattutto di sfruttamento del successo.
Quando verso la fine del 1917 i
tedeschi, dopo circa 3 anni, decisero di passare nuovamente all'azione
offensiva sulla fronte occidentale, avevano pronta una nuova tattica che
esperimentarono prima a Riga e poi a Caporetto. Con la tattica dell'attacco contro i punti deboli che essi
adottarono, intesero: restituire alla fanteria il compito della conquista degli
obiettivi; conferire alla fase di penetrazione carattere di potenza, continuità
e flessibilità, da essi stessi sottratto con la
tattica di intermittenza; rimettere in auge i principi della sorpresa, dell'inganno
e dell'economia materiale delle forze per troppo tempo disattesi. La nuova
tattica, alla quale ben presto si uniformarono gli altri eserciti e che
costituirà la base delle dottrine offensive tra la prima e la seconda guerra
mondiale, poggiò sui seguenti criteri fondamentali: preparazione
dell'artiglieria non superiore alle 3-5 ore; smascheramento dello sforzo
principale mediante il ricorso a sforzi finti
di potenza iniziale non inferiore a quella dello sforzo principale;
continui spostamenti di truppe nelle retrovie per disorientare il difensore;
riduzione e, se possibile, annullamento delle soste attacco durante, mediante
stretta cooperazione fanteria-artiglieria che assicuri, finché è possibile,
l'appoggio mobile di fuoco, e mediante lo stretto coordinamento del movimento
dei reparti fucilieri con il fuoco dei nuclei mitraglieri e lanciagranate,
delle bombarde e dei cannoni di accompagnamento; sostituzione nelle formazioni
della fanteria della riga con la fila come la più idonea al movimento e
la meno vulnerabile; riduzione della densità della catena. In Piccardia nel marzo la
preparazione di artiglieria durò 5 ore, in Fiandra nell'aprile 3 ore,
sull’Aisne nel maggio 2 ore e 40 minuti, nello Champagne in luglio 5 ore 20
minuti sulla Marna 4 ore 40 minuti; a Caporetto nell'ottobre del 1917 ed a
Banteux e Ventidue nel novembre i tedeschi avevano già attaccato dopo una
preparazione brevissima, ma intensa, di granate a gas, fumogene ed esplosive;
gli austro-ungarici nel giugno del 1918 aprirono il fuoco alle 3 del giorno 15,
preceduti di mezz'ora dalla contropreparazione italiana, e mossero all'attacco
4 ore dopo. Prendere posizione durante la notte, non logorarsi contro i punti
forti, sfruttare le occasioni favorevoli, insinuarsi nelle zone di maggiore
facilitazione e di minore resistenza, non gettarsi in massa contro la fronte ma
sondare i punti deboli, avviluppare e non battere contro: questi i canoni della
nuova tattica e della nuova tecnica che modificarono sostanzialmente la
fisionomia fino ad allora avuta dall'azione offensiva, che acquistò così un
certo respiro. L'artiglieria smantella i punti forti, la fanteria manovra per
farli cadere; le 2 armi riassumono i ruoli tradizionali. Ma il problema
dell'azione offensiva non su risolto, solo reso meno difficile e costoso. Anche
con la tattica e la tecnica precedenti, sia pure con costi insostenibili, si
era riusciti talvolta a rompere le sistemazioni difensive ed a penetrarvi in
profondità, ma erano mancati i mezzi idonei al dilagamento. E’ vero che spesso
il dilagamento non c'era stato o per indisponibilità di riserve, o per la loro
dislocazione eccentrica, o per colpa dei generali, ma la verità di fondo era
stata l'idoneità del mezzo, perché la cavalleria, la cui iniziale insufficienza
di capacità operativa era venuta vieppiù aumentando in proporzione geometrica
con il progressivo accrescimento della robustezza delle difese, non era stata,
non era e non sarà più in grado di esprimere la potenza necessaria a sfondare
le barriere difensive che incontrava in profondità, e neppure a prevenirvi il
nemico che non senza ragione le predisponeva così lontane. La forza della
tradizione, lo spirito di sacrificio, il coraggio ed il valore non erano più
sufficienti a supplire la debolezza costituzionale di mezzi inidonei
vulnerabili. La difesa ebbe sempre modo e tempo di correre alla parata anche
quando l'attacco ruppe il muro e riuscì a sboccare in campo aperto, dove giunse
però quasi sempre esausto e logoro, privo cioè della forza psicologica e
materiale per spingersi con slancio in profondità. La cavalleria, che guerra
durante aveva ricevuto nuovi mezzi di fuoco, non fu egualmente in grado di
svolgere il suo compito principale e dové appiedare per combattere con
procedimenti infanteristici nell'ambito delle azioni tattiche e delle divisioni
e dei corpi d'armata.
(Da Filippo Stefani Storia della Dottrina e degli Ordinamenti dell'Esercito Italiano). continua con post in data 10 giugno 2020
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