sabato 30 gennaio 2021

Interpretazioni coeve sulla mancata cooperazione serba


Secondo la opinione del maresciallo von Conrad fu il contegno passivo della Serbia a Salvare l'Austria nel 1915


 Il gen. Adriano Alberti in meritio al tema della mancata cooperazione serba ebbe a scrivere:

In base alla convenzione di Pietroburgo, firmata il 21 maggio, gli eserciti russo, serbo e italiano dovevano dirigere, di pieno accordo, il massimo sforzo contro l’Austria. Ha mantenuto fede, l’Italia, a questo patto?

Si è già detto che l’Austria nel giugno aveva 221 battaglioni sulla nostra fronte; più precisamente 201 battaglioni e 41 riparti di standschutzen i quali ultimi si sono contati per prudenza come mezzi battaglioni, perchè all’inizio della guerra essi avevano, in base ai dati del kriegsarchiv di Vienna, una forza variabile da 400 a 1000 uomini. Dunque 221 battaglioni, pari a 18 divisioni, erano schierati contro di noi all’inizio della 1a battaglia dell’Isonzo; gli standschutzen, truppe territoriali composte di montanari, furono invece impiegati nel montuoso Tirolo.

Ma iniziata la 1° battaglia sull’Isonzo (30 giugno-5 luglio), seguita a breve distanza dalla 2a (10 luglio-10 agosto), l’Austria s’avvide che i suoi calcoli erano inesatti e cioè che le forze schierate contro di noi erano insufficienti: in luglio furono allora inviate in rinforzo alla nostra fronte altre 3 divisioni (8 a, 59 a, 61a) più altre tre brigate da montagna (12a, 14a, 59a), ed una di landsturm (19a), in totale 5 divisioni. L'aumento continuò in modo che per la 3a e 4a battaglia sull’Isonzo l’archivio di Vienna dà presenti 80 battaglioni in più delle forze schierate all’inizio della 1a battaglia; del pari considerevole era stato l'aumento delle artiglierie. L’offensiva italiana, dunque, aveva servito quale notevole alleggerimento per i due eserciti alleati impegnati contro l’Austria. Col suo solito semplicismo il Danilow dice che nessuna cooperazione era stata possibile dato che gli italiani erano stati fermati presso l’Isonzo. Ora, che importa se la zona nella quale si combatteva era qualche chilometro più ad est o più ad ovest, quando con la nostra prima offensiva avevamo attirato contro di noi l’equivalente di una armata? Qualcuno doveva pur aver provato sollievo dalla diminuzione delle forze schierate contro di lui.

Delle truppe affluite alla nostra fronte dal maggio ai primi di settembre sei divisioni (8a, 17a, 20a honved, 22a, 28a, 44a) erano provenienti dalla Russia; otto (1a, 18a, 48a, 50a, 57a, 58a, 59a, 61a) più qualche brigata da montagna (12a, 14a) dalla Serbia; l’alpenkorps bavarese (di recente formazione) proveniva dalla Germania. Ora, che dalla fronte russa si potessero distrarre forze, dato che l’esercito dello czar era in ritirata, si comprende, ma il togliere tante divisioni dalla fronte serba dove gli austriaci erano stati battuti, è un fatto che merita un minuto esame.

Già in previsione dell’inizio delle operazioni alla fronte italiana erano state tolte dalla fronte serba almeno 5 divisioni, tanto che ne erano rimaste soltanto tre attive, la 59a, la 61a e la 103a tedesca, più 60 mila uomini di truppa esclusivamente territoriali e 65 mila uomini di presidio alle fortezze. Ma il 3 luglio, la 61a divisione ebbe ordine di recarsi alla fronte italiana, dove pure fu, il 20 luglio, trasportata la 59a e il 24 seguì la 19a brigata da montagna di landsturm di nuova formazione. Poichè la 103a divisione tedesca era stata trasportata il 10 luglio in Russia, le truppe mobili alla fronte serba si ridussero così unicamente alla 205° brigata di marcia; situazione che, salvo una divisione formatasi col raggruppamento dei battaglioni di truppe di sicurezza, durò immutata sino alla fine del settembre 1915. Ma l’esercito serbo rimase coll’arma al piede.

Le forze serbe, dopo la clamorosa vittoria del dicembre 1914 sugli austriaci, erano rimaste ‘per cinque mesi indisturbate. Conrad, in un rapporto in data 5 giugno al generale Bolfras, capo della casa militare dell’Imperatore, indicava le forze serbe «operative» in 11 grosse divisioni, in totale da 230 a 250 mila fucili oltre i 25 mila fucili montenegrini.

La Serbia era in condizioni militari difficili: separata dagli alleati e malsicura della Bulgaria, doveva temere di essere attaccata dalle potenze centrali; tanto più che questo attacco era la premessa necessaria di due essenziali aspirazioni austro-tedesche: l'alleanza colla Bulgaria ed il diretto collegamento colla Turchia. Un nostro tenente colonnello di stato maggiore interrogato nell’agosto 1915 sulle probabili imprese tedesche rispose: «appena possibile la Germania attaccherà la Serbia», e tutti gli ascoltatori ne convennero. Innegabilmente difficile la situazione, probabile un'azione austro-tedesca contro il piccolo stato. Che fare, dunque, dal lato militare? attendere l’attacco, risparmiando le forze? star cioè quieti per timore del peggio? Kitchener, come si rileva dalla relazione serba, era del parere che i serbi si sarebbero attenuti a questa condotta di guerra: telegrafò infatti, il 3 luglio, all’addetto inglese: «Io premetto che i serbi, in genere, non si affretteranno, poichè con una loro azione potrebbero attrarre contro di loro forze molto superiori a quelle che essi sarebbero in grado di opporre con una eventuale speranza di successo».

Non risulta se Kitchener ritenesse soltanto probabile tale condotta o se la approvasse. Ad ogni modo se l’esercito serbo non entrava in azione nel momento in cui gli austro-tedeschi dovevano premere i russi e gli austriaci erano premuti dagli italiani, ciò equivaleva a lasciare, come si lasciò, al nemico la scelta del momento e delle forze da schierare contro la Serbia. Questa consentì che la Russia retrocedesse e che le forze mobili austriache accorressero a sostenere la fronte Giulia gravemente compromessa dai colpi italiani. In tal modo la Serbia cooperò a salvare l’Austria da una possibile rovina.

 Tratto da

Alberti A., Testimonianze straniere sulla guerra italiana 1915-1918, Roma, Ministero della Guerra, Comando del Corpo di Stato Maggiore, a cura del giornale "Le Forze Armate”, 1933.

Massimo coltrinari

(Master di 1°Liv. in Storia MIlitare Contemporanea. Dal 19160 ad Oggi. 

Temi di tesi.

contatto: didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org

martedì 19 gennaio 2021

L'atteggiamento della Russia di fronte all'entrata in guerra dell'Italia nel 1915

 

La partecipazione dell’Italia alla Grande Guerra aveva posto l’Italia a riconsiderare il suo problema strategico. Occorre rilevare che sia la Gran Bretagna che la Francia riconobbero senza esitazione l’enorme importanza di questa scelta di campo. Chi invece non apprezzò, anzi avanzò pretesti non secondari denigrativi per la scelta italiana. La Russia era scesa in guerra per la difesa della Serbia, ed i nostri rapporti con Belgrado erano pessimi e questo non poteva non essere tenuto presente dei decisori russi. I Russi all’inizio del 1915 erano in una situazione veramente difficile, e a Parigi e Londra un intervento dell’Italia poteva equilibrare la situazione strategica. I Russi accusarono l’Italia di un intervento tardivo, che impedì alla Russia di evitare i disastri in cui andò incontro a meta del 1915 a cominciare da Gorlice.  Dopo i primi quattro mesi di guerra, La Russia, che era entrata in guerra con 5000 cannoni e 5.000.000.di proiettili. Durante i mesi precedenti il tasso di consumo fu d circa 45.000 proiettili al giorno, a fronte di una produzione delle officine russe di circa 35.000 proiettili al mese. In pratica a Natale la Russia disponeva di soli 300.000 proiettili. La Russia aveva perso 1.350.000 uomini tra Caduti, feriti e prigionieri e dispersi. Non era minimamente pensabile in una sua azione offensiva, anche se i responsabili russi ostentano la più tranquilla calma.

 La situazione grave era nota a Londra e a Parigi ma non era nota l’Italia, che ancora dava retta ai dati non reali comunicati da San Pietroburgo.

 Il generale Dalilow, comandante delle forze russe, ebbe modo di denigrare l’intervento dell’Italia nei seguenti termini

 L’offensiva italiana si trovò arrestata al suo inizio e non andò oltre l’Isonzo. Le forze modeste che l’Austria aveva dirette su questo fronte riuscirono ad arrestare l’avanzata dell’esercito italiano. Per questa operazione il Comando supremo austriaco non aveva ririrato dalla nostra fronte che una quantità minima di truppe, due o tre divisioni appena, avendo prelevato il resto dalla frontiera della Serbia e della Romania dove gli austriaci sono stati rimpiazzati da truppe tedesche; queste ultime vennero dunque ad occupar eil territorio austro-ungarico. Poiché esse non erano state ririrate dalla fronte occidentale si arriva a concludere che l’entrata in guerra dell’Italia non migliorò direttamente la nostra ( russa nda) situazione bensi quella dei nsotri alleati occidentali”.


(massimo coltrinari)

contatti: ricerca.cesvam@istitutonastroazzurro.org

lunedì 11 gennaio 2021

Maria Luisa Suprani. Note sulla Grande Guerra

 




L’utilità storica della testimonianza del generale Eugenio De Rossi

 

Nel corso del primo sbalzo offensivo della Grande Guerra, discese le falde del Monte Nero, i primi di giugno Alpini e Bersaglieri si scontrarono con la difesa austroungarica posta a presidiare la conca di Tolmino. Si mirava ad impedire i rifornimenti nemici dai quali la testa di ponte sulla destra dell’Isonzo (colli di Santa Maria e di Santa Lucia) era alimentata. «Una crudele ferita, riportata nel combattimento del 2 giugno 1915 al Merzly (Monte Nero), mi ha paralizzato dalla cintola in giù, confinandomi in una poltrona. A distogliere il pensiero dal mio stato ed a lasciare un ricordo ai miei cari, ho dettato questo racconto della mia vita». Il modo lapidario con cui il generale Eugenio De Rossi introduce La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, pubblicato nel 1927, non lascia affatto presagire il registro del suo racconto che saprà rivelarsi  avvincente.

Nato nel 1863, di famiglia piemontese di militari di antica data, attraverso il susseguirsi delle tappe della sua carriera, il generale De Rossi offre uno spaccato di efficacia notevole circa il percorso compiuto dall’Esercito postunitario, assai prezioso per comprendere i prodromi e lo svolgimento della guerra italiana. De Rossi ripercorre la (sua) storia attraverso la narrazione di una serie di aneddoti che sanno restituire, con levità di tratto e profondità di pensiero, pressoché l’intera gamma dell’esperienza umana. Nel corso del racconto si stagliano, definite dalla prospettiva che solo lo sguardo di un contemporaneo può cogliere, le figure destinate a divenire celebri, restituite in un’immediatezza rivelatrice di alcuni loro tratti peculiari[1].

 La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra illumina la complessità della cultura militare eterogenea del Paese fra Otto e Novecento che uscirà trasformata dall’esperienza bellica: già negli anni antecedenti al conflitto, in nuce, si possono scorgere i presupposti dei momenti più gloriosi e dei fatti gravi che comporteranno la necessità di una riflessione radicale.

Una massima, che peraltro non è di De Rossi ma da lui fatta propria in virtù dell’efficacia dimostrata (non solo in ambiente militare), rimane memorabile: «“Sapere, saper fare, saper vivere, è il segreto per arrivare!” mi diceva. Ed è perfettamente vero»[2].



[1] […] mi avviavo a casa […] quando, in via Nizza, scorsi un giornalaio percuotere in modo bestiale un suo figlioletto decenne. Le grida del ragazzo salivano al cielo, la gente guardava ma non interveniva, ed allora mi avanzai per far moderare l’infuriato genitore, il qual si voltò subito verso di me come una vipera. Passava in quel momento un tranvai a cavalli, ed un signore nero vestito ne balzò fuori, venne a porsi al mio fianco e strappò il ragazzo dalle mani del padre. Una guardia civica si intromise, la cosa si chiarì, il fanciullo aveva sottratto denaro dal banco ed era recidivo. Il signore in lutto dall’aspetto distinto e severo mi spiegò di non poter soffrire maltrattamenti a bambini e perciò essere accorso. Si dichiarò lieto di aver trovato un camerata animato da ugual sentimento, e datami la sua carta di visita, saltò sopra un altro tranvai che passava e disparve. Era il tenente colonnello di Stato Maggiore conte Luigi Cadorna (E. De Rossi, La vita di un Ufficiale italiano sino alla guerra, Milano: Mondadori, 1927, p. 79).

[2] Ivi, p. 52.